“Raccontami una storia: parlami di te, raccontami chi sei”
Tutti i colori della mia ombra
di Sandra Saporito
Ho avuto una breve infanzia felice: sono stata figlia unica fino ai miei sei anni. Una mattina d’aprile, mentre mi stava accompagnando alla scuola elementare del quartiere dove ci eravamo trasferiti un paio d’anni prima, mia madre mi chiese cosa avrei voluto ricevere per Natale. Rimasi in silenzio, con gli occhi che vagano intorno a me come per cercare un po’ d’ispirazione. Ricordo che il marciapiede era cosparso di delicati petali rosa che gli alberi in fiore avevano perso per colpa della bufera che si era scatenata durante la notte. Gli alberi di Giuda, posti su entrambi i lati del viale, avevano pianto a tal punto da rimanere nudi; i rami, tesi verso l’alto quasi a supplicare misericordia, erano rimasti esposti a questo cielo senza pietà che continuava a tenere il broncio e minacciava di grandinare. Era ancora presto per farmi questa domanda, al di là del fatto che era mattina e che avevo dormito poco la notte precedente, terrorizzata dal vento che avevo sentito ululare come una bestia feroce fuori dalla mia finestra. Dovevano passare ancora l’estate e l’autunno per arrivare a Natale, lo sapevo perché avevo dovuto studiare le quattro stagioni la scorsa settimana perciò se mia madre mi poneva questa domanda, significava che potevo chiedere qualcosa di importante. Questa volta, Babbo Natale avrebbe avuto tempo a sufficienza per preparare il regalo che gli avrei chiesto. Eravamo ormai arrivate al cancello della scuola e mancava poco meno di una decina di minuti al suonare della campanella. Lei mi diede un bacio sulla guancia per salutarmi, scostando il cappuccio del giubbotto che mi nascondeva quasi tutto il viso, e mi mandò a giocare con le mie amiche nel cortile per quel tempo che mi rimaneva. Stavo correndo con la cartella che mi balzava a destra e sinistra sulla schiena quando la risposta alla sua domanda mi giunse come un fulmine. Mi fermai e tornai indietro di corsa, chiamandola attraverso quella sciarpa bianca che mi tappava la bocca per non prendere freddo, perché fa ancora molto freddo in Belgio ad aprile. Per fortuna mi sentì e si fermò. Il cancello era chiuso ormai ma riuscii a infilare la mano tra le sbarre arrugginite per cercare di attirarla a me. “Mamma, vorrei una sorella.” le risposi aggrappandomi alla sua mano. Lei mi sorrise e mi rimandò a giocare.
Dopo nemmeno un mese, mia madre cominciò a mangiare a dismisura, mangiava fino a vomitare, fino a svenire, cosa che mi spaventò a morte ma mio padre m’insegnò a farla rinvenire ponendo un profumo forte sotto il suo naso e così non ebbi più paura che lei potesse morire. La sua pancia lievitò velocemente. Quando andammo al mare durante le vacanze estive, era grossa come un’anguria; malgrado questo, lei continuava ad ingurgitare cibo in continuazione, divorando le mie merendine, dicendo che doveva mangiare per due. Poi, dopo le vacanze si tinse i capelli e dal castano scuro passò al biondo platino. Vedevo mia madre trasformarsi in una persona che non conoscevo: una donna che urlava per una matita lasciata sul tavolo e non riposta al suo posto, che rompeva i piatti se osavo dirle che non avevo più fame, che mi mandava al letto senza cenare se osavo dirle “no”.
La mattina del 25 dicembre, Babbo Natale giunse puntuale col suo regalo ma sbagliò pacco: mi lasciò un fratellino, in ospedale. Pare che il “mio” regalo era uscito direttamente dal pancione di mia madre. Era un posto decisamente strano dove nascondere i regali. L’esserino pesava circa quattro chili e strillava così forte da farmi venire male alle orecchie. Neanche quest’anno avevo ricevuto un bel regalo. Babbo Natale cercava forse di punirmi, di farmi capire che ero una bambina cattiva? Ero la prima della classe, rimettevo sempre in ordine i miei giocatoli e aiutavo in casa ad apparecchiare il tavolo; cosa dovevo fare di più per meritarmi un regalo decente una volta tanto? Nel frattempo, i miei genitori contemplavano il loro primo figlio maschio come se fosse la cosa più bella del mondo. A ricordo mio, non vidi mai mio padre guardarmi con tanto orgoglio o tenermi in braccio come se fosse il suo più bel trofeo, nemmeno mia madre mi coccolò e ricoprì mai di baci e carezze come lo faceva con quel fagotto dalla pelle raggrinzita che teneva in braccio. Sembravano aver vinto entrambi alla lotteria. Mentre io restavo ferma in piedi nell’angolino di quella camera d’ospedale, i parenti, i nonni e gli zii defilavano davanti a me senza salutarmi, senza vedermi. I muri della stanza mi fecero compagnia per tre lunghe ore, al termine delle quali mio padre si ricordò di me e mi portò a casa.
Avrei dovuto aspettare l’indomani per aprire i regali che mi aspettavano sotto l’albero. Bisognava aspettare che la mamma e il fratellino tornassero a casa così avremo festeggiato Natale e aperto i regali tutti assieme; tanto, oggi avevo già ricevuto il più bello di tutti secondo mio padre: Babbo Natale non avrebbe potuto fare di meglio. Se era davvero così, era tempo di mandare Babbo Natale in pensione, secondo me: il vecchio panciuto vestito di rosso cominciava a svalvolare. L’inverno e la primavera passarono al suono delle urla notturne del fratellino che dormiva nella stanzetta accanto alla mia. Per fortuna ci misi poco a comprendere che bastava mettergli il ciuccio in bocca per farlo smettere di strillare e poter continuare a dormire in pace. Tuttavia, al mattino, l’unica cosa che volevo era restare al letto ed erano le urla di mia madre a farmi alzare, altrimenti sarei arrivata tardi a scuola. Credo che sia stata questa stanchezza prolungata a farmi venire strane idee in testa.
Era una tarda mattina di giugno ed ero tornata a casa prima come tutti i miei compagni di scuola, per poterci preparare agli esami di fine anno che avrebbero cominciato da lì a due settimane. Appena ebbi varcata la soglia di casa, mia madre mi mandò di corsa a studiare in camera mia. Mentre si apprestava ad allattare il pargoletto che era raddoppiato in taglia e peso, io salii le scale di legno che portavano al piano di sopra cercando di non fare rumore. Fu in quel momento che decisi di fare una piccola deviazione per la stanza dove lei teneva tutti i suoi attrezzi da sarta. “Solo cinque minuti, poi vado a studiare, promesso!” pensai, ma non mantenni la parola.
Sul tavolo marrone di formica che mia madre usava per cucire i vestiti della domenica, c’erano dei fili di tutti i colori, aghi grandi e piccoli, la carta velina che usavo col suo centellinato permesso per ricopiare le figure degli animali che trovavo nei miei libri; e poi, c’erano loro: le forbici. Quelle forbici, che per la mia giovane età non mi era concesso toccare perché non avevano la punta rotonda come quelle della scuola, erano la cosa più bella del mondo: anelli neri e lucidi, lunghe ed affilate lame d’acciaio inossidabile, e poi c’era quel meraviglioso rumore che facevano le lame quando si strusciavano l’una contro l’altra. Quel canto di metallo era la promessa di un taglio netto, veloce e preciso.
All’epoca fu per me il suono più bello del mondo. Somigliava a quello dell’affettatrice del macellaio dal quale andavamo comprare il prosciutto cotto ogni giovedì. La macelleria era il paradiso del metallo: c’erano coltelli lunghi, corti, larghi, fini, per tagliare ogni tipo di carne; dietro il banco le lame accarezzavano con sensualità la polpa rossa che si sarebbe da lì a poco trasformata in bistecca, arrosto, o spezzatino. Pensavo che sarei diventata macellaia solo per poter lavorare con l’affettatrice e i coltelli tutto il giorno e sentire il canto dell’acciaio. Fui risvegliata dal mio sogno ad occhi aperti dal fischio di una macchina che frenò bruscamente nella strada sotto casa e tornai alle lame che tenevo in mano. Volevo vedere quanto tagliavano quelle forbici. Sul tavolo, c’erano i cartamodelli disegnati da mia madre per cucire il vestito di battesimo del fratellino; era un vestito elaborato che doveva essere di raso bianco, con un cappuccio lungo e appuntito che lo avrebbe fatto somigliare ad un gnomo sulle fotografie. Certo, doveva essere il re della festa! Invece, del mio battesimo non mi era rimasto nemmeno una bomboniera. Non c’erano soldi all’epoca. Conoscendo il tempo che mia madre aveva impiegato a disegnare i modelli di quel dannato vestito e visto che era lo stesso tempo che non aveva dedicato a me, nel caso in cui ne avessi fatto dei coriandoli, avrei rovinato il vestito, la festa, il battesimo. Magari la gente non sarebbe neppure venuta e il fratellino sarebbe rimasto invisibile agli occhi degli altri, esattamente come mi sentivo io da quando era nato. Tuttavia avrei dovuto poi vedermela con le mani di lei, il bruciore sul sedere e le punizioni durante le vacanze. Dopo una breve riflessione decisi che era meglio lasciare stare quella carta, avrei trovato qualcosa di meglio da tagliare.
Mentre il mio sguardo si perdeva sul tavolo alla ricerca di un oggetto sul quale poter sfogarmi, vidi l’estremità della mia treccia appoggiata al bordo del tavolo. Non si sarebbe accorta di nulla, avrei tagliato solo le punte. Infilai per bene le dita dentro gli anelli neri e cominciai a stringere lentamente. Ricordo che la stanza non era ben illuminata: le pesanti tende di velluto, di un polveroso verde pistacchio, erano tirate e io ero troppo piccola per arrivare all’interruttore, ma ci vedevo quel tanto che bastava per guardare con attenzione quelle punte che regolarmente mia madre mi tagliava per rinforzare i capelli, per farli diventare più lunghi e forti.
Magari tagliando le punte prima dell’ora avrei avuto finalmente i capelli lunghi fino al sedere come le fate dei miei libri. Inginocchiata sulla sedia di fronte al tavolo, corrugai la fronte per mettere meglio a fuoco il mio obiettivo e cominciai a premere sugli anelli. E lentamente le punte caddero sul tavolo come foglie morte al “zac!” più bello che avessi mai sentito. Avevo tagliato così poco che non si vedeva nulla, ma quel suono era così incantevole che volevo sentirlo ancora, e ancora. Tagliai ancora un po’ e senza accorgermene le mani cominciarono a danzare. Mi trasformai in uno chef d’orchestra che dirigeva con la sua bacchetta magica la più bella sinfonia del mondo; divenni una ballerina che danzava sulle dita, una cantante dalla voce d’acciaio. Mi ero talmente persa in chi sa quale angolo buio della mia mente che non mi resi conto di ciò che stava accadendo. Avevo sciolto i miei capelli, come per liberare l’anima rinchiusa in quella pettinatura rigida che mi costringeva al dolore ogni santa mattina. Sentii la leggerezza scorrermi sulla testa come una brezza fresca e leggera. La testa era libera, il cuoio capelluto non tirava più, sentivo il piacere invadermi il capo e i capelli, riprendere il loro posto sulla mia testa. Non erano più sudditi piegati al volere di mia madre che con violenza li stringeva nel suo pugno per farne ciò che voleva. Li avevo liberati e ora stavano urlando vendetta per tutte le strattonate ricevute quando osavo dire ciò che pensavo, quando decidevo di servirmi per prima a colazione, quando volevo giocare invece di passare interi pomeriggi col naso in quegli odiosi compiti di matematica. Lì sulla mia testa, c’era il mio esercito e reclamava un capo, qualcuno che li avrebbe difesi da quelle mani che davano, da sei mesi a questa parte, più sculacciate che carezze, che puntavano il dito, che zittivano, che vedevo mostrare i brutti voti in pagella ma che non applaudivano mai quando portava a casa il massimo dei voti. Io sarei diventata il mio campione: avrei liberato la mia testa dal potere della matrigna cattiva, le avrei impedito di imprigionare di nuovo il mio popolo dentro a quelle trecce maledette e avrei rivendicato anch’io il mio titolo di erede. Appoggiai le lame d’acciaio alla testa, sentivo il metallo freddo sul cuoio capelluto infiammato. Oh dio, quant’era piacevole quella sensazione! Questa volta, ero convinta di ciò che stavo facendo mentre guardavo i miei lunghi capelli cadere a terra in un mucchio sempre più alto e folto. Tagliai, fino a quando non rimase più nulla da tagliare. Era fatta: avevo i capelli corti e la testa libera. E poi, un lampo mi attraversò la mente: lei se ne sarebbe accorta. La magia era sparita. Ora ero sola, accovacciata sulla sedia con in mano le forbici e ai miei piedi, c’erano tutti i miei capelli.
Avvertii il rumore del vetro del biberon appoggiato sul tavolo di legno del salotto e sentii calarmi addosso la consapevolezza del condannato a morte che sa che è solo questione di tempo. Quelli furono i cinque minuti più lunghi della mia vita. Lei mi chiamò: dovevo aiutarla ad apparecchiare il tavolo per il pranzo. Avrei dovuto mostrare il mio atto di ribellione, un atto irreversibile che non avrei mai potuto nascondere. Scesi le scale facendo finta di tenere in mano i miei capelli, come a mimare di farmi una coda da sola, con stretto nel pugno solo l’aria invece di quello che pochi minuti prima era una folta e lunga treccia. Sperai che non se ne accorgesse e di poter fingere fino a quando sarebbero ricresciuti i miei capelli. Magari, se mi fossi messa in testa tutti i giorni fino a sera quel berretto orrendo che mi aveva regalato la nonna per il mio compleanno, non si sarebbe accorta che l’avevo tradita, che mi ero ribellata al suo volere, che le avevo tolto dalle mani lo strumento che usava per fare di me quella bambolina, obbediente e succube, che aveva cresciuto in questi anni ma che non ero più ormai. Scesi le scale tentando di sorridere ma il cuore mi pulsava così forte che mi rimbombava nelle orecchie. Scesi a passo lento, scalino dopo scaldino, e arrivai di fronte a mia madre.
Lei, con lo sguardo freddo, mi scrutò dalla testa ai piedi, poi si chinò sopra di me per guardare da più vicino la mano vuota che mi ostinavo a tenere dietro la nuca; trattenni il respiro. E poi, lei sbuffò. In quell’attimo intuii quanto mi avrebbe costato il mio gesto e chiusi gli occhi per non piangere. Quando li riaprii, la vidi fissa, immobile di fronte a me. Non disse nulla, nemmeno una parola. Rimanemmo in quella posizione per un momento abbastanza lungo da poter sentire i suoi occhi infilzarmi il cuore con la stessa maestria del macellaio quando preparava gli spiedini. Poi se ne andò in cucina sbattendo la porta dietro di sé, noncurante del piccolo che si mise ad urlare. In quel momento non riuscii a reprimere il mio pianto e corsi per le scale per andare a nascondermi nella mia cameretta. L’indomani era il giorno delle foto di classe. Lei non mi aveva portata dal parrucchiere per rimediare al danno che avevo fatto e lasciò che il fotografo della scuola immortalasse quella testa che aveva osato opporsi a lei e che da ora somigliava più ad un ragazzo che ad una femmina. Mio padre era d’accordo: così avrei imparato la lezione. Ora, oltre ad essere del sesso sbagliato, ero pure inguardabile.
Crebbi, e agli occhi dei miei genitori mi salvarono solo i buoni voti che portavo a casa. La scuola era l’unico posto dove potevo ancora conquistare un posto sul podio, un posto che persi dal primo anno delle medie per colpa della matematica. Da quel maledetto giorno di giugno, non mi fu mai più concesso di avere i capelli lunghi. Ogni anno mia madre ripeteva come una condanna quel gesto che avevo compiuto da piccola, castrando per sempre il mio sogno di avere i capelli lunghi come le fate dei mie libri d’infanzia e di somigliare a qualcosa di vagamente bello e femminile. Avevo voluto diventare un maschio? Bene, lei mi avrebbe congelata in quell’errore per tutto il tempo in cui sarei stata a scuola, università compresa. Per quanto i miei capelli potevano crescere velocemente durante l’anno, per quanto potevo avvicinarmi al mio tanto agognato sogno, l’inizio di settembre segnava il momento del taglio drastico. Eppure non mi diedi per vinta: se lei poteva continuare a punirmi con le lunghezze, non avrebbe potuto fare nulla sul colore. È così che cominciai a tingermi i capelli di nascosto, con quelle tinte che se ne andavano dopo qualche lavata di testa. Le tinte si facevano lentamente più decise e provocatorie: dai riflessi viola alle ciocche bionde ossigenate, arrivai alle bombole di verde e fucsia da spruzzare sui capelli all’occorrenza, fino ai mascara per mèches metallizzate. Forse cercavo di attrarre l’attenzione dei miei genitori che litigavano sempre più spesso ma l’unico effetto che avevo era quello di vederli distogliere lo sguardo ogni volta che passavo davanti a loro. Questo non fece che aumentare la mia rabbia, la voglia di vendicarmi, di urlare quanto in realtà mi sentivo ferita per le differenze che facevano tra me e mio fratello al quale tutto era permesso.
Mi ero rassegnata ad usare i miei capelli per comunicare al mondo i miei stati d’animo, cosa che poteva dare luogo a cacofonie cromatiche nei momenti emotivamente più provanti come avvenne in quella mattina di aprile durante la quale mi versai in testa tutti i colori che potevo. Su una perenne base viola con grossolane frange laterali ossigenate, avevo creato un improbabile mix tra verde acido e rame. La mia testa somigliava più alla palette di un pittore surrealista che alla chioma di un’adolescente, e con quella testa che urlava silenziosamente il mio dolore, andai a vedere mio nonno: aveva di nuovo avuto una crisi respiratoria e questa volte nessuno serbava speranze.
Durante il viaggio, nessuno aprì bocca. Entrammo nella vecchia casa dei genitori di mio padre, in silenzio. La porta era aperta. Nonno era seduto nella sua vecchia poltrona di cuoio, la stessa che aveva conosciuto nell’arco di quarant’anni i salti di una ventina di nipoti scalmanati. Una maschera di plastica e un tubo lo collegavano a due enormi bombole d’ossigeno poste dietro di lui. Non so se era cosciente oppure se si stava già preparando al viaggio. Malgrado tutto il suo viso era sereno, forse gli incubi che l’avevano tormentato per tutta la sua vita erano svaniti, forse stava rivedendo i suoi amici di guerra, ora sorridenti accanto a lui dopo aver rivissuto, ogni notte per mezzo secolo, quel terribile momento in cui aveva dovuto strisciare sui loro corpi senza vita nelle trincee.
Nel salotto di quella vecchia casa dai mattoni rossi, nessuno osava parlare, nessuno osava piangere. Nonno teneva gli occhi fissi su una realtà che solo lui poteva percepire mentre noi guardavamo altrove per non incrociare il suo sguardo, perché faceva troppo male arrendersi a ciò che da lì a poco sarebbe successo. Ognuno di noi tentava di estraniarsi dal dolore cavalcando ricordi e pensieri mentre la nostra mente ci portava lontano da quei quindici metri quadri arredati con mobili di seconda mano. Mentre ero seduta al tavolo posto nel centro della stanza, con gli occhi fissi sulle tazze nella vetrinetta di fronte a me, vidi di colpo il mio riflesso sul vetro. Mi sentii ridicola e blasfema con tutti questi colori in testa. Era dunque questo l’ultimo ricordo che gli avrei lasciato di me? Avrei lasciato che l’uomo che da piccola riusciva a sollevarmi con una mano sola se ne andasse con l’immagine di un pagliaccio mal riuscito che piangeva per lui? No, io e lui meritavamo di meglio.
Mi alzai come per non disturbare l’aria intorno a me e mi avvicinai a lui, quasi camminando sulla punta dei piedi, e gli presi dolcemente la mano. Sembrava più pesante del solito ed era appena tiepida, rigida. È in quel momento che capii che forse sarebbe stata l’ultima volta che avrei potuto tenere quella mano che i racconti di famiglia avevano trasformato in uno strumento di punizione divina, in grado di fare svenire con un colpo solo la persona sulla quale si abbatteva. Non avevo conosciuto nulla di tutto questo per fortuna. Per me, era la mano che distribuiva le carte in tavola, che teneva il bastone per camminare, la stessa che mi aveva indicato il Carro e Cassiopea quando ero piccola; era la mano nella quale mi sentivo al sicuro dal mondo, protetta; era il mio scudo, la mia protezione, e stava svanendo ogni secondo che passava. Era colpa della miniera, dello zolfo, del carbone, della guerra. Era colpa del mondo che lo aveva ucciso ogni giorno se avrei passato il resto dei miei giorni senza la sua presenza rassicurante, senza quella voce grave che raccontava storie divertenti in dialetto siciliano per nascondere il dolore lancinante che lo affliggeva da molti anni. Poi sentii la sua mano stringermi. Lo guardai. Mi stava sorridendo attraverso la maschera, il suo sguardo si posò su di me come quella mano che da piccola mi accarezzava dolcemente la testa, anche quando avevo avuto i capelli à la garçonne. Lui mi sorrise e io scoppiai a piangere, riversai in un fiotto incontrollabile i miei ricordi d’infanzia: le giocate a carte, le passeggiate nella stradina vicino a casa sua, con lui e il suo amico russo che aveva la bocca di traverso perché in guerra qualcuno gli aveva sparato in faccia e le infermiere lo avevano ricucito alla bell’e meglio, le feste in famiglia e la lotta coi cugini ogni volta che bisogna sfregare il fiammifero per accendere il tabacco nella pipa che lui non lasciava mai, malgrado la tosse, malgrado il sangue nel fazzoletto che faceva infuriare il dottore.
Piangevo su quella mano che non volevo lasciar andare. Poi, sentii poggiare sul mio capo la sua mano destra. “Picciridda, sembri un piccolo arcobaleno.” mormorò lui con fatica. “Ai piedi degli arcobaleni c’è sempre un tesoro, sai? Io…”. Un violento attaccò di tosse lo interruppe. La maschera si appannò e la tosse si fece sempre più forte, colpo dopo colpo. Le sue guance passarono velocemente dal rosso al violaceo. Stava peggiorando quindi era meglio riportarmi a casa, per non farmi vedere brutte cose. I miei genitori mi trascinarono di forza fuori da casa prendendomi sotto braccio mentre io volevo abbracciarlo un’ultima volta. Potevo ben resistere con tutte le mie forze, aggrapparmi al tavolo, alle sedie, alle braccia delle zie che staccavano le mie mani dagli appigli di fortuna che trovavo intorno a me, urlando e pregando di volergli dire addio, ma invano. Durante il viaggio di ritorno, i rimproveri per le mie “scenate” in un momento del genere mi scivolarono addosso, le frecciatine dei miei genitori non mi facevano più nulla ormai. Appena entrammo in casa nostra, salii le scale e me ne andai in camera mia. Fu la prima volta in vita mia in cui sbattei la porta. Mi addormentai piangendo, vestita così come ero, con i colori dei miei capelli che si trasferirono in parte sul cuscino.
L’indomani mattina, mio fratello, che aveva poco più di sei anni all’epoca, venne a bussare timidamente alla porta della mia camera e mi chiese se stavo bene, se avevo fame, perché non avevo cenato il giorno prima. Non capiva cosa stava succedendo e perché tutti erano strani in casa. Gli aprii la porta e lo abbracciai, forse perché in quel momento ero io ad aver bisogno di un abbraccio. “Capirai quando sarai più grande, ma non ti preoccupare perché per te ci sarò sempre. Ti voglio bene, piccola peste.” gli dissi.
Lo strinsi forte a me e poi gli diedi un pizzicotto sulla guancia. Lui sorrise e mi prese per mano; era ora di fare colazione e lui aveva fame. A quanto sembrava, i nostri genitori si erano dimenticati pure di lui questa volta. Scendemmo assieme le scale, un passino alla volta. Da un lato si teneva alla ringhiera e dall’altro lo tenevo per mano. Quando fummo arrivati al piano inferiore, sentii dei singhiozzi provenire dal salotto. Mio padre aveva la cornetta del telefono in mano ma dall’altra parte non c’era più nessuno; mia madre si nascondeva il viso tra le mani. Lì lasciammo da soli. Presi un respiro profondo e rimandai indietro la marea di lacrime che stava salendo in me e portai mio fratello in cucina. Lo feci sedere sistemando i cuscini sulla sua sedia e apparecchiai il tavolo. Stavo per tirare fuori dalla credenza i soliti cereali quando cambiai idea: avrei fatto delle crespelle. Appena aggiunsi la marmellata di fragole e il barattolo di Nutella sul tavolo, il piccoletto si mise a battere le mani dalla felicità.
Non capiva ciò che stava succedendo intorno a lui ma non m’importava. In quel preciso istante, la sua felicità scacciò i brutti pensieri e i vecchi rancori. Gli chiesi se voleva cucinare assieme a me e lui esultò. Raggruppai tutti gli ingredienti sul piano di lavoro e mentre rompevo le uova nell’insalatiera, lui, in piedi sulla sedia, muoveva la frusta come meglio poteva. Versai il latte e poi la farina e lo aiutai a girare l’impasto più velocemente per non fare grumi. Quando gli misi un po’ di farina sul naso, si mise a ridere. Poi avvicinai la sua sedia ai fornelli e gli diedi il mestolo in mano: lui avrebbe versato l’impasto nella padella e io avrei cotto e fatto saltare la crespella.
Fu un totale disastro: le ruppi tutte, ma l’impasto era buono e le mangiammo ugualmente, tentando di ricomporre nel piatto ciò che in origine doveva somigliare ad un cerchio. Lasciammo qualche crespella ai nostri genitori adagiandole in un contenitore ermetico per tenerle al caldo e andammo a lavarci le mani, i denti, e il viso sporco di farina e marmellata. Da lì a poco avremmo dovuto prepararci per andare dai nonni, solo che questa volta nella poltrona di cuoio non ci sarebbe stato nessuno e sarebbe stato molto difficile spiegargliene il motivo.
Tre giorni dopo, il giorno del compleanno del nonno, eravamo tutti al cimitero per dirgli addio: i figli con le rispettive consorti, i nipoti e i pronipoti. C’era una sessantina di parenti stretti, senza contare gli amici di quartiere, tutti vestiti di nero. In mezzo a loro, c’ero io con i miei capelli variopinti. Mentre la bara veniva calata nella fossa davanti a me, mi tornarono in mente le ultime parole del nonno e capii che aveva avuto ragione su di me: dovevo per forza essere un piccolo arcobaleno visto che ai miei piedi vedevo seppellire tutto ciò che avevo di più caro al mondo.
Sono passati venticinque anni da allora e sono andata a vivere all’estero, lontano dalla mia famiglia, lontano da tutti. Vedo solo mio fratello ogni tanto, su Skype. Avevo bisogno di voltare pagina, di cambiare aria e soprattutto di ritrovare me stessa.
Vivere da sola e ricominciare da zero non è stato facile, ma ne è valsa la pena. Da quando mi sono trasferita, ho smesso di tingermi i capelli. Poi, ho incontrato un uomo in grado di sopportare i miei alti e bassi, di stare al mio fianco anche quando avrei voluto scappare lontano da me. Quando ci ritroviamo la sera, dopo una lunga giornata di lavoro, la prima cosa che fa è abbracciarmi, senza dire una parola; e mentre io mi godo la musica del cuore che batte nel suo petto, lui sprofonda il viso tra i miei capelli. Dice che il loro profumo lo rilassa, lo fa sentire a casa; forse è questo il potere magico dei capelli di fata.
Il racconto ha partecipato al concorso “Raccontami una storia: parlami di te”