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Raccontami una storia: “I piccoli tesori”

I piccoli tesori

La prima volta che la vidi fu amore a prima vista. Era il giorno del mio compleanno (quattordici anni: l’adolescenza in tutto il suo delirio) e lei occupava la mia sedia in cucina, seduta dritta e fiera, in equilibrio vagamente precario, ma non vacillava affatto. Ecco, mi dissi: tra me e lei nascerà una sincera amicizia. Nei giorni successivi la studiai. La presi in mano, e la appoggiai sulle mie gambe. Scorrevo le dita sul legno liscio, muovevo i polpastrelli sullo smalto di colore rosa e facevo scoccare le corde una ad una. Incredibile, i mondi che sei corde vuote sanno creare. Mi, La, Re, Sol, Si, Mi.

La verità è che non sapevo nemmeno come si prendesse in mano, una chitarra. Sapevo solo che la musica, quando si insinuava dentro di me, non mi lasciava scampo. La musica rock mi donava immensa grinta, quella classica era un calmante naturale dall’efficacia garantita, c’erano alcune canzoni che mi facevano saltare e in pochi minuti mi restituivano il sorriso e altre che non smettevano mai di emozionarmi, non importava quante volte le avessi ascoltate.

Strimpellavo una pianola sgangherata, e cantavo con acuti stonati quasi tutte le canzoni che mi capitavano a tiro, ma non mi bastava. Volevo questo strumento solista, che sembra piangere a volte, sembra ridere, sembra dire tante parole che noi esseri umani non siamo in grado di codificare ma che, a chi è in grado di ascoltare attentamente, dicono tanto.

A quattordici anni, i difficili anni di ricerca di un nostro mondo, io avevo preso in mano una chitarra elettrica, snobbando con aria da rocker tutti quelli che sostenevano che si inizia con la chitarra classica, e mi ero iscritta a lezioni di musica che seguivo con assiduità. Avevo visto troppi video dei Led Zeppelin e dei Pink Floyd? Ero alla ricerca di una sicurezza che non mi apparteneva? Sognavo troppo, sognavo troppo poco, vivevo in un mondo di arte perché quello vero mi spaventava?

Forse niente di tutto ciò. Forse tutto. O forse semplicemente le passioni, quelle vere, che ci accompagnano solo per pochi mesi o per una vita intera, sono esse stesse il senso dei nostri giorni: ci sollevano dal peso di essere noi stessi. Ci aprono le porte a mondi creati apposta per noi o ce ne fanno creare di nuovi, ed io nella musica stavo costruendo il mio modo di essere. Ogni giorno studiavo nuovi frammenti di brani famosi, e le canzoni piano piano prendevano forma, come pezzi di puzzle scomposti, con una sagoma tutta loro. Tenere le unghie cortissime era ormai un’abitudine, e i miei calli sulle dita della mano sinistra erano un orgoglio, i segni della mia fatica e dei miei allenamenti, che una volta formati non facevano più male.

Continuai con la chitarra per quattro anni, fu la colonna sonora della mia adolescenza.

In tutti questi anni di corde rotte, di amplificatori non funzionanti, di troppo chiasso per troppo poco tempo, di jam session con amici in cui non ci si metteva mai d’accordo su che brani suonare, la musica mi ha insegnato tante cose.

La prima, è che la bellezza è sotto i nostri occhi tutti i giorni, e spesso nemmeno ce ne accorgiamo. Siamo presi dal fare, dal mostrare, dal cercare. A me, basta fermarmi qualche istante ed assaporare una minuscola fetta dell’immensa torta che è la musica per essere invasa dalla magia. É vero, dopo torno nel mondo reale. Torno agli esami universitari, alle spalle contratte, al timore del giudizio degli altri. Sono però fermamente convinta che se lo vogliamo, quel pizzico di magia può silenziosamente invadere ogni attimo della nostra vita.

Secondo, mi ha insegnato a cambiare prospettiva. Ogni piccola delusione d’amore, ogni discussione, ogni momento in cui senza motivo mi sentivo giù, la musica mi ha dato le parole giuste. Alcuni testi sembravano scritti apposta per me, e sapere che qualcun altro, chissà dove, chissà quando, stava avendo i miei stessi problemi, e sapeva sicuramente descriverli con parole migliori delle mie, mi faceva sentire meno sola. Mettici un bel riff di chitarra e un bell’arpeggio pianistico e le parole diventavano poesia. Per la proprietà commutativa, anche i piccoli grandi problemi che aggrovigliavano la mia mente diventavano poesia, e forse, solo per un’istante anche io, imperfetta e dubbiosa, diventavo poesia.

Infine, la musica rock mi ha insegnato che va bene essere arrabbiate. Troppe volte sento che noi ragazze dobbiamo sottostare a delle leggi orali inventate da persone di sesso maschile: non essere suore, non essere troie, saper cucinare e fare le cose da donne, non dire parolacce, non cercare di invadere settori tipicamente maschili, insomma, non mettersi a suonare musica metal, a guidare aerei o fissarsi di voler andare sullo spazio. Ecco, per me la musica rock è stata una ribellione a me stessa, al mondo, a certi canoni sottilmente imposti. Prendersi la libertà di urlare ed alzare il dito medio, e non smettere mai di farsi domande.

Ora, la ragazzina dalla chitarra rosa è cresciuta. La mia chitarra è in bella mostra sotto una finestra dello studio, accanto a dizionari e libri multicolore, illuminata dal sole durante il pomeriggio. Non la suono più, se non saltuariamente. A volte canto, a volte strimpello un pianoforte, evoluzione della pianola che suonavo durante le scuole medie, a volte ascolto musica e basta. A volte mi chiudo in bagno davanti allo specchio, con lo spazzolino in mano come microfono, e inizio a saltare sul mio palco, un tappeto dipinto di blu, le canzoni che scorrono come onde di un mare benevolo sul mio cellulare.

Se mi vedesse qualunque persona esterna sarei mandata a fare una visita psichiatrica, ma forse il nostro modo più vero di essere è questo, matto e anticonformista. Il bianco asettico del bagno diventa un arcobaleno multicolore, e il tempo vola finché non mi rendo conto di essere terribilmente in ritardo sulla tabella di marcia.  Altre volte, quando sono in macchina, in radio passa una canzone che mi piace tanto e lancio uno strillo emozionato, poi inizio a cantare, mentre fuori ci sono pioggia impazzita, sole e quaranta gradi, semafori rossi che diventano verdi e verdi che diventano rossi, paesaggi mozzafiato senza case intorno, smog cittadino, automobilisti agitati che discutono col passeggero, il passeggero che dà indicazioni sbagliate e autovelox impazziti: io sono lì, nel mio nido musicale che mi accompagna nei piccoli viaggi. Altre volte ancora, le canzoni sono solo nella mia testa.

Sono materiale da consolazione, bagliori di speranza, sono per me parte di un ambiente circostante, sono energia e ritmo. Sono parte dello spazio, sono un luogo della mia mente in cui so che posso sempre rifugiarmi.

A volte scopro pezzi nuovi, a volte riscopro brani vecchi. A volte mi fisso con un brano per abbandonarlo dopo pochi giorni, altre volte mi sembra che una canzone faccia parte di me da sempre. Spesso, un ‘wow’ meravigliato si stampa nei meandri della mia mente, ed è lì che inizia la meraviglia.

Non importa se non suoni più uno strumento, se hai poco tempo da dedicargli, se per qualche tempo ti perdi, se il filo a volte sembra rotto: ci sono grandi amori che non finiscono mai.

Abbi cura dei piccoli tesori che ogni giorno riempiono la tua vita.

Nicole Benedettini

Il racconto ha partecipato al concorso “Raccontami una storia: parlami di te”

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