Joshua era seduto alla scrivania, teneva una pillola in una mano e una lattina di birra nell’altra. Ingoiò la pillola, bevve dalla lattina e il senso di colpa salì. Per farlo tacere strofinò il ginocchio, la ragione ormai sbiadita per cui aveva dovuto comperare gli antidolorifici. L’incidente risaliva a un anno prima, ma Joshua teneva ancora una scorta di pillole nel cassetto, che in giornate come quella lo aiutavano a far sparire l’irrequietezza. Si sentiva in colpa con se stesso e la rabbia che gli cresceva dentro vedendosi agire in quel modo era ogni giorno più difficile da gestire. Una parte di lui non poteva credere che avesse dimenticato così facilmente il tragitto che era stato necessario percorrere per uscire dalle dipendenze. Si alzò per far scemare la tensione; muovendo due passi attraverso la stanza semibuia raggiunse la finestra. La serranda era abbassata, ma le strisce forate che dividevano le doghe di plastica erano rimaste aperte. Joshua premette il naso al vetro e guardò attraverso quei fori: si vedeva il giardino, un bel manto verde copriva il terreno. Aprire quella finestra e permettere ai colori di entrare sarebbe stata la mossa giusta da fare, come vuotare il flacone di pillole nel WC del piccolo bagno attiguo allo studio e limitarsi, da lì in poi, a scolare qualche birra nei giorni più bui. Non era giusto solo teoricamente, era la scelta giusta per lui in quel momento, per uscire una volta per tutte da quello sconforto che sembrava aver plasmato la sua
vita, anno dopo anno, mentre lui passava da una bolla all’altra, da una promessa infranta all’altra, infine reagendo, ma lasciando un piede tra la porta e lo stipite per poter tornare indietro se avesse voluto, come nell’ultimo anno appena trascorso.
Andò al bagno, urinò, si guardò allo specchio: la barba non tagliata da una settimana, i capelli pareggiati dal rasoio elettrico, due cerchi marroni intorno alle palpebre viola: quale donna si sarebbe girata a guardalo per strada, se non in virtù della notorietà di quel volto? Nessuna. Eppure lui era la stessa persona di un tempo; non era cambiato, né invecchiato male. C’erano suoi colleghi di cinque o dieci anni più vecchi che mostravano di avere ancora pacchi di charme nel portabagagli, da distribuire alle signore. Lui aveva semplicemente chiuso i battenti, ai vizi come alla vita. Non era colpa di sua moglie, che lo aveva aiutato nel passaggio, ma della sua visione distorta del divertimento: per sentirsi desiderabile, l’alcool e le droghe erano obbligatorie compagne; se quelle mancavano, la sua virilità finiva in un scatolone in soffitta.
Non proprio la sua virilità, Rose poteva confermare che era vitale come un diciottenne. Il problema era il fuori: non gli interessava più che aspetto avesse, cosa gli altri vedessero quando lui passava loro davanti. In realtà neanche questo era vero; a Joshua mancava la voglia di vivere, ecco qual era il vero problema. Era successo in passato, quando la droga prendeva il posto del cibo, della musica, di se stesso. Qualcosa di simile era accaduto negli ultimi sei anni, che però era stato causato dall’assenza della droga. Più probabilmente la colpa era sua, con o senza intralci tra i piedi.
Tornò in sé e vide che aveva gli occhi arrossati: si commuoveva sempre quando pensava al passato, bello o brutto che fosse il ricordo. Guardò in alto, ispirando a fondo. La pillola fece effetto e Joshua perse il filo dei pensieri, andò in camera e si buttò sul letto vestito.
Sua moglie lo trovò addormentato al ritorno da un giro di commissioni, erano le sette di sera e lei si sentì improvvisamente molto stanca. Pensò che con Joshua in casa la primavera diventava inverno, ma non disse nulla. Lo scosse per svegliarlo e poi scese in cucina, dimenticando ogni proposito di cucinare la cena e andando diritta al telefono portatile, con cui ordinò cibo d’asporto alla rosticceria messicana che si trovava lungo la statale.
Le ultime immagini furono di un’insegna al neon rossa che lampeggiava contro il cielo scuro. La donna uscì dal sogno senza svegliarsi del tutto. Mosse le mani che teneva in grembo, distese un poco le spalle e riprese a sognare.
Gli occhi azzurri illuminati dal sole sembravano scolpiti nel marmo, iride e cornea erano quasi dello stesso colore, solo la pupilla dava profondità allo sguardo. Will fissava la spiaggia dal tetto dell’albergo bianco, immenso e articolato robot sceso sul golfo verdeggiante, che da dieci anni era proprietà della Mundo Travel Ltd. Alle sue spalle c’erano la musica, il chiacchiericcio e il tintinnare dei bicchieri presi e lasciati dalle mani abbronzate dei presenti.
Era appagato, senza pensieri pesanti ad affollargli la mente. Anni prima aveva scoperto che il lusso era il suo sedativo preferito: con quello, il resto passava in secondo piano.
Will lo aveva sempre saputo, forse non dalla culla o dai banchi della chiesa, ma già d’adolescente: quando i suoi amici facevano piccoli sogni concreti o grandi sogni sconnessi, lui sapeva di cosa aveva bisogno. Era l’unico con un piano chiaro tra quelli che all’epoca frequentava, anche se tutti negli anni avevano avuto la loro parte: un figlio con deficit d’attenzione, una moglie apprensiva, lo stesso impiego per venti anni, una pancia da birra. A lui era arrivato il successo economico e il riconoscimento pubblico del suo talento. “La vita ti dà quello che le chiedi” pensò Will sorridendo, poi voltò le spalle all’Oceano e s’incamminò verso il tavolo della DJ, una bionda ragazza inglese che ora gli stava sorridendo.
La donna riemerse dal sogno, il bianco abbacinante dall’estate sudamericana sparì. Aprì gli occhi e vide nero, che sfumò sulle tonalità del blu e del grigio con il passare dei secondi. Invece di dare il tempo agli occhi di abituarsi, li chiuse. Doveva sognare, non c’era tempo da perdere.
L’uomo sedeva al tavolo della cucina, la mano premuta contro il viso per sostenerlo, un anello al mignolo che occhieggiava nel grigiore mattutino. Il suo sguardo era vitreo. Dentro Edward si sentiva in pace, sapeva di star perdendo tempo, ma non gli interessava. Sarebbe rimasto così ancora un po’, poi avrebbe preparato la colazione. Indossava pantaloni blu della tuta, una T-shirt bianca, i piedi scalzi. Si mosse lentamente, guardandosi intorno come se ci fosse qualcosa di nuovo, mentre erano almeno cinque anni che gli oggetti in quella stanza erano gli stessi. Trovò del caffè avanzato il giorno prima di fianco al fornello, mise il bricco sul fuoco per scaldarlo. Aprì un cassettone del mobile sotto l’isola centrale della cucina e ne tirò fuori un pacchetto aperto di fette biscottate. Proseguì il suo rito mattutino con movimenti lenti, l’aria assorta.
Edward pensava al prossimo concerto, che si sarebbe tenuto a Ginevra. La città non era lontana da dove viveva, ma per lui era comunque una scocciatura. Quello e altri due appuntamenti erano gli unici impegni che lo aspettavano nei prossimi due mesi, prima che iniziasse la stagione estiva e i festival in cui sarebbe apparso come ospite. Eppure sentiva un gran peso, la stessa tensione che si prova da bambini quando la mattina si deve andare a scuola: fosse anche per un giorno, quella cosa non la vuoi fare. Più cerchi di non pensarci, più ti assorbe e, anche se provi a vederne i lati positivi, la menzogna dura poco, così tu ricadi nello sconforto.
Pensare che aveva fatto enormi sacrifici per poter vivere di quello che ora era costretto a fare.
«Ogni cosa a suo tempo, c’è un’età per tutto.» si rispose ad alta voce.
Era vero, non poteva biasimarsi: era vecchio; non era una malattia, ma questa nuova condizione in cui sentiva di trovarsi da qualche anno andava rispettata, non poteva far finta di niente perché il mercato lo pretendeva. Lui doveva pensare al giardino e alle passeggiate all’aria aperta, doveva anche continuare a comporre, cosa che amava fare, ma non poteva essere obbligato a seguire la stessa agenda d’impegni di un quarantenne che ha appena conquistato un lavoro di prestigio e deve farlo fruttare. Lui aveva fatto la sua parte, doveva passare più tempo meditando che producendo, questo era il verso giusto di procedere.
Poteva pensarci tutto il giorno, tanto le cose non sarebbero cambiate. Terminò di fare colazione, mise bicchiere e coltello nella lavastoviglie e si diresse in camera da letto.
La donna si destò, questa volta del tutto. Aprì gli occhi e rimase a fissare il soffitto, che distava venti centimetri dal suo naso. Il tessuto che l’avvolgeva era fitto, ma non così tanto da impedire ai raggi del sole di penetrare: c’era sicuramente una finestra alla sua destra. Non riusciva a vedere la stanza, ma era lì per sognare e il resto non importava.
Adesso che li aveva visualizzati, era il momento di chiamarli. Non sapeva dove i tre uomini si trovassero, ma sapeva come raggiungerli.
Chiuse gli occhi per controllare, ma nessun immagine apparve. Questo voleva dire che nessuno dei tre in quel momento stava dormendo. Avrebbe dovuto attendere, controllando di tanto in tanto. Alzò le mani davanti al viso per osservare le pellicine intorno all’attaccatura delle unghie. Passò così qualche minuto, poi spostò la sua attenzione alle punte dei capelli, che tirava su a ciocche, portandoli davanti gli occhi e osservandoli in controluce.
Provò a chiudere gli occhi, apparve una stanza. Poteva cominciare la seconda fase del piano.
Entrando nella stanza di Will, le passarono davanti agli occhi gli affreschi visti negli anni, rappresentanti l’angelo dell’Annunciazione. Lui dormiva sul letto per metà sfatto, la camicia a fiori era aperta sul ventre rilassato e i pettorali non del tutto tonici. Era disteso scomposto, quasi seduto, circondato da una corona di cuscini di varie grandezze, tutti bianchi. Di fianco a lui c’erano un tablet, uno smartphone e una sigaretta elettronica spenti. Sul comodino un bicchiere vuoto con due cannucce trasparenti dentro.
Lou si avvicinò al letto e toccò Will sulla spalla.
«Will, svegliati.»
L’uomo aprì gli occhi e in quel secondo di smarrimento che seguì, sembrò più vecchio di quanto in realtà fosse. Alzò lo sguardo su di lei e chiese:
«Chi sei?»
«Piacere, mi chiamo Lou e sono una scrittrice.»
«Chi ti ha fatto entrare? Non puoi.» Will si sistemò a sedere, rosso in volto per l’agitazione, ma Lou lo fermò trapassandolo con una mano all’altezza del petto.
«Sono un sogno, non sono reale. Vedi?» Tirò fuori la mano, che Will fissò mentre si strofinava il punto in cui era entrata così facilmente.
«Sono sveglio, non sto dormendo.»
«Sì e no, sei in una fase intermedia. Le tue rispose sono coscienti, ma quello che vedi è un sogno.»
«Cosa vuoi?»
«C’è da salvare il mondo, ti va d’aiutarmi?»
Will rimase con la bocca semiaperta, gli occhi azzurri fissi su Lou.
«È un sogno? Ok, allora ci sto. Basta che torniamo in tempo per il concerto di domani.»
«Dovrai prenderti la giornata libera.»
«Come vuoi … come hai detto che ti chiami?»
«Lou.»
«… Lou. Cosa dobbiamo fare?»
«Innanzitutto devi trovarmi, tu e gli altri due uomini che ho scelto. Poi parleremo del da farsi.»
Will stava seduto con un braccio appoggiato alla gamba, un po’ piegato in avanti. Ancora con la bocca aperta, sospirò guardandosi intorno, poi ruotò gli occhi verso Lou, come se quel movimento gli costasse fatica.
«Trovare te? Io dovrei venire a trovare te con chi? Altri due uomini hai detto?»
«No, loro verranno da soli. Tu devi raggiungermi e devi partire ora.»
«Sempre nel sogno, giusto?»
«No, nella realtà. Partirai quando ti sveglierai.»
«Cosaa!?!» esclamò l’uomo.
«Dammi retta per favore.»
Will ispirò molta dell’aria presente nella stanza, poi riprese a parlare:
«Dove ti trovi?»
«Non lo so, aspetta che controllo.» Lou chiuse gli occhi e scomparve. Will si alzò di scatto. La donna riapparve e i due si trovarono sovrapposti per una frazione di secondo, poi Will si ritrasse spaventato.
«Che cazzo!» commentò dissimulando l’emozione.
«Se ti metti dove sto io, ci sovrapponiamo.»
«Non credevo che ….»
«Mi trovo in una stanza di un palazzo, credo abbandonato.»
«Dove?»
«Non lo so.»
«E io dovrei trovarti?»
«Volere è potere.»
«Ma io non voglio!» precisò Will con una smorfia divertita.
«Ma devi farlo!» gli fece il verso Lou.
«Perché, altrimenti il mondo esploderà?»
«No, perché è ora di darsi una mossa.»
«Sto bene così, grazie.»
«Ascoltami, ti prego, è importante.» la voce di Lou era seria e così il suo viso, Will si fermò a guardarla e poi fece un cenno con la testa.
«Dimmi qualcosa di più»
«Cioè?»
«Un indizio, qualsiasi cosa mi permetta di trovarti.»
«Io sarò dove tu mi cercherai.»
«Mhm … in una stanza di un palazzo abbandonato, hai detto.»
«Sì. Sento le onde infrangersi in lontananza, fuori qualcosa batte ritmicamente, non capisco si tratti di un cantiere o altro.»
«Non puoi affacciarti alla finestra?»
«No, non mi posso muovere. Devi venire a liberarmi tu.»
«Ho capito.»
«Verrai?»
Will guardò Lou e capii che la donna non stava scherzando. Il sarcasmo scomparve e lui rimase in silenzio per alcuni secondi.
«Dobbiamo salvare il mondo?»
«Sì.»
«E solo io posso farlo?»
«Più gli altri due.»
«Giusto. E in virtù di cosa?»
«Cioè?»
«Perché mi hai scelto?»
«Perché sei un artista, perché se no?»
Will sentì il petto riempirsi di un sentimento simile all’orgoglio, che gli fece drizzare la schiena.
«Giusto, ma ce ne sono di più meritevoli di me.»
«Questo è certo, ma tu hai ancora molti fan. Anche questo è importante.»
L’uomo abbozzò un sorriso, annuendo.
«Ok.»
«Ok cosa?»
«Ti verrò a cercare.»
«Giura.»
«Giuro!» Will era sempre più divertito dalla situazione «Non mi credi?»
«Ora sì, a dopo.»
«Dove vai?»
«A cercare gli altri due.» rispose Lou voltata verso la porta. Si mosse verso di questa, ma svanì prima di raggiungerla.
Will controllò l’ora sullo smartphone: erano le 5 in punto del mattino. Si sdraio con le mani dietro la nuca. Rimase in quella posizione sino a che il sole non entrò nella stanza.
Will era ancora steso sul letto con gli occhi aperti. Quel momento che introduceva l’alba era il suo favorito per addormentarsi. Prima di cedere al sonno si alzò, tolse la camicia e i bermuda bianchi, sotto cui era nudo. Si riavviò i capelli scoloriti dall’età, di un biondo opaco, ed entrò in bagno.
Fece la doccia, si asciugò e si vestì, assorbito dai pensieri.
Prima d’uscire dalla stanza dell’albergo, si guardò fugacemente allo specchio: il viso concentrato mostrava poche rughe, soprattutto sulla fronte. Il botox l’aveva reso prima giovane, poi immortale, di un’immortalità che sapeva di fregatura.
Passò davanti alla stanza del suo assistente, il corridoio con le pareti chiare era immerso nel silenzio. Alla reception chiese che gli fosse chiamato un taxi, poi si sedette in una delle poltrone di pelle nera della hall.
Aveva sfogliato metà di una delle riviste che giacevano sul tavolino davanti alle poltrone, quando il portiere di notte lo avvisò che il taxi era arrivato.
Salì sulla macchina che aspettava con il motore acceso.
«Dove desidera andare?»
Ci pensò un attimo, poi disse:
«Verso il mare. Faccia un giro sul lungomare.»
Gli occhi dell’autista lo soppesarono per un momento dallo specchietto retrovisore, intanto il mezzo si mosse.
Will era a suo agio, anche se non sapeva cosa stesse facendo. Si rilassò sul sedile e prese a contemplare il paesaggio che gli correva di fianco. Il sole stava sorgendo sull’Oceano e poche
persone si aggiravano sul largo marciapiede che correva di fianco al mare. La spiaggia era vuota, immensa distesa alla sua destra.
Will girò la testa a sinistra: ristoranti, bar, autonoleggio, alberghi. La varietà delle costruzioni e la moltitudine di insegne facevano assomigliare quella strada a un deposito merci stipato di oggetti. Continuò a guardare. Vide spuntare un palazzo in costruzione, anch’esso affacciato sulla grande arteria su cui l’auto stava viaggiando.
«Fermi davanti a quel cantiere.» disse chinandosi in avanti, verso il conducente.
L’uomo annuì.
«Devo aspettarla?»
«No, ho preso il numero della sua compagnia.» rispose passando la carta di credito all’autista.
Will si rese conto di essere eccitato, felice quasi.
Sperava fosse tutto vero, lo credeva in fondo, ma non volle approfondire quel pensiero per paura che la fede l’abbandonasse. Girò intorno alla copertura di metallo che isolava la costruzione; sul lato corto del palazzo trovò un varco.
Entrò nel vano scale con i muri di cemento grezzo e il punto di giuntura dei pannelli ancora visibile. Non c’era corrimano né finestre, le scale e le aperture sui muri erano gli unici elementi presenti.
Salì sino al secondo piano, oltrepassò il pianerottolo e s’inoltrò nel largo corridoio. La prima stanza che incontrò era vuota, la seconda aveva la porta chiusa da un grande pannello di truciolato. Lo spostò, si pulì le mani strofinandole tra loro ed entrò.
Will guardò in alto, dove si trovava lei.
«Quanto mi fai incazzare!» esclamò Lou.
«Fai come ti pare, io non vengo.» rispose Joshua.
«E allora io ti porto via le pillole.»
«Non puoi farlo, sei un sogno.»
«Sono la scrittrice e faccio le magie, se necessario.»
«E io …»
«E tu fai schifo, lasciatelo dire. Ormai vivi di rendita; dovresti avere un po’ più di rispetto per i tuoi fan.»
Gli occhi di Joshua, da fessure che erano, divennero enormi tondi neri, mentre lui si drizzava in tutta la sua statura. «Cosa? Tu non sai niente …»
«… dei tossici, è vero. Scusa, ma non puoi dare per scontato che le persone sappiano come comportarsi davanti a un tossicodipendente, non è normale doverci convivere.»
«Sono uscito da quella roba!»
«E sei entrato in un’altra.» Lou si stava quasi divertendo, ma pensò che era meglio interrompere il battibecco: «Senti, continuerei a fare le veci di tua moglie volentieri, ma ho da fare. Le pillole stanno con me, tu devi solo venirmi a cercare per riprenderle. Gli indizi ce li hai. Adesso pensa a svegliarti, ci rivediamo presto.» Svanì senza attendere risposta e lasciò Joshua solo nello studio.
Joshua si svegliò, il braccio destro era addormentato sino al gomito e sul piano della scrivania c’era una piccola pozza di saliva. Si asciugò la bocca e cercò di aprire il cassetto dove teneva nascosto il flacone arancione. Il braccio destro era incontrollabile, così provò con il sinistro. Per la foga e l’inesperienza dell’arto il cassetto s’incastrò, essendo stato mosso leggermente in diagonale rispetto al suo asse d’apertura.
Joshua emise un grugnito, tirò più forte. Qualcosa si ruppe, ne sentì il rumore, ma non gli importò. Tirò ancora e il cassetto uscì in un solo colpo, il suo contenuto esplose nella stanza come una bomba di coriandoli. Le lacrime di rabbia gli annebbiavano la vista mentre cercava a terra, sul divanetto, dietro la poltrona, negli angoli. Accese anche la luce, per dissipare le ombre che il tardo pomeriggio aveva formato nella stanza. Le pillole erano sparite.
L’uomo rimase per un attimo carponi, pezzo d’arredamento tra altri, poi si mise a raccattare gli oggetti in silenzio, riponendoli nel cassetto.
Andò in bagno, si lavò la faccia, poi andò in camera dove infilò le scarpe. Prese le chiavi di casa e dell’auto e uscì.
Edward guidava la sua FIAT 124 Sport Coupé verde chiaro sulla strada che circondava il lago. Vagava con lo sguardo intorno di tanto in tanto, la carreggiata era libera e i pedoni pochi a quell’ora del pomeriggio.
Ripensava alla ragazza del sogno, a come era piombata nel suo riposino e nel suo salotto.
Dopo il loro colloquio, si era destato disteso sulla poltrona reclinabile, nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato Lou. Così aveva detto di chiamarsi la donna.
Era uscito di casa dopo una sosta al bagno, aveva tirato fuori l’auto dal garage e si era diretto verso il lago.
«È l’unico posto qui intorno dove si possano sentire delle onde. Adesso manca di trovare i colpi di martello e ci siamo.» Commentò ad alta voce, tirando su l’angolo sinistro della bocca come atto di derisione alle sue stesse speranze.
Arrestò l’auto in mezzo alla carreggiata. Stette un attimo in ascolto, poi si decise ad accendere la freccia sinistra. Entrò nel piazzale in cui erano parcheggiate poche auto, si fermò davanti a un palco costruito per metà. Quattro anziani signori e un ragazzo si davano da fare intorno alla struttura per assemblarla, un cartello fluorescente prometteva mangiate e balli per la sera successiva.
Il martello colpiva in modo regolare gli assi di legno, per farli entrare nella loro sede.
In piedi, poco distante dall’auto, Edward guardò in alto, gli occhiali da sole per proteggersi dalle nubi grigie, le mani sui fianchi. Girò su se stesso di novanta gradi e la vide: dall’altra parte del piazzale rispetto al palco, alle spalle della sua auto, c’era una vecchia casa a due piani. Sembrava abbandonata da tempo, un cartello VENDESI appariva da dietro una finestra come un fantasma, ormai scolorito e con il numero di telefono ridotto a una serie di segni gialli indecifrabili. Alcuni vetri del primo piano erano rotti, le due ante del portone era tenute chiuse da una catena con lucchetto. Edward si avvicinò. Guardò ancora un po’ la facciata, salì i due gradini e tentò di muovere il catenaccio, che non cedette; costeggiò la costruzione dal lato monte perché dall’altro lato sarebbe stato esposto alla strada e al marciapiede.
Dietro la casa c’era un giardino, contornato da una rete in più punti collassata. Il giardino era abitato da un albero di cui Edward non conosceva la specie e il suolo era ricoperto di erbe spontanee, che formavano un vello alto e folto. L’uomo guardò di nuovo la casa: non c’era porta sul retro, ma solo una finestra a piano terra con i vetri rotti.
Si guardò intorno; iniziava a sentirsi fuori luogo, con la sua polo e i jeans stirati, e l’entusiasmo che l’aveva portato sino a quel punto si spense. Fece per tornare all’auto, poi si fermò di fianco alla casa, fissò gli anziani uomini che lavoravano curvi, la pelle flaccida delle braccia che nascondeva muscoli ancora forti, e tornò sui suoi passi. Per entrare si tenne alla cornice della finestra, che si sgretolò in tanti piccoli trucioli. Atterrò sul pavimento coperto da schegge di vetro e immondizia, si pulì le mani sui pantaloni e iniziò a esplorare l’interno della casa.
Era entrato nella cucina, di cui rimaneva un lavabo profondo di ceramica e un camino posto di rimpetto. La stanza aveva due uscite: una era senza porta, l’altra l’aveva chiusa. Edward si diresse verso la porta chiusa, che dava sul piazzale. La porta si aprì e lui si trovò in una stanza deserta, illuminata dalla finestra sporca su cui era attaccato il cartello VENDESI. Non c’era nulla su cui poggiare gli occhi, tranne il bozzolo di tessuto blu che stava attaccato al soffitto.
«Cosa cavolo è?» chiese a se stesso mentre avanzava nell’ampia stanza. Era felice di aver assecondato l’istinto ed essersi infilato in quell’avventura. Il grande bozzolo si estendeva in lunghezza, come se il suo contenuto, dopo esser stato ben avvolto, fosse stato attaccato al soffitto in orizzontale, grazie a tiranti fissati al soffitto con ganci di metallo. Quando Edward fu sotto di esso, vide apparire due ombre ai suoi lati. Avanzando con gli occhi fissi al soffitto, aveva percepito le sagome con la vista periferica. Terrorizzato, Edward balzò indietro. Appoggiò le spalle al muro, portò le mani al petto per calmare il battito del cuore, mentre gli occhi sgranati guardavano davanti a sé, in cerca di quello che non c’era più. Ripensò a cosa aveva visto: sembravano due uomini. Quando era saltato indietro, li aveva guardati in faccia: anche loro avevano un’espressione stupita. Lou aveva parlato di altri due uomini. Edward si convinse che era tutto a posto perché c’era una logica in quello che stava accadendo. Avanzò di nuovo, sentiva di avere le mani fredde.
Arrivò sotto il bozzolo e i due uomini ricomparvero. Erano entrambi più alti di lui, uno di poco e l’altro di quasi quindici centimetri. Si guardarono in silenzio e si riconobbero. Edward fece un cenno di saluto con la testa, poi disse: «Siete voi gli altri due; non avrei mai pensato a voi. Ci siamo mai esibiti nello stesso festival?»
«Mai» rispose Joshua.
«Credo proprio di no.» fece eco Will, estraendo la sigaretta elettronica dalla tasca dei jeans.
«Come ci ha scelti?» Il fatto che Edward saltasse le presentazioni non turbò nessuno. Will rispose: «Secondo i suoi gusti, evidentemente.»
«Quindi» si fece avanti Joshua, strofinandosi con il palmo della mano i capelli corti «Siamo stati chiamati da una scrittrice che ascolta rock-blues …» disse indicando con la mano aperta Edward «hard rock e metal» concluse toccando con l’indice il proprio petto, dopo averlo puntato in direzione di Will.
«Esattamente.» confermò Will aspirando dal lungo bocchino di metallo.
«Cosa ci stiamo a fare qui?» continuò Joshua.
«Credo che dobbiamo tirarla fuori.» disse Will.
«Da dove?» intervenne Edward.
«Da là dentro» concluse Will indicando il bozzolo con la sigaretta mentre guardava Edward negli occhi.
I tre guardarono in alto e videro che la cosa dentro il bozzolo si muoveva, come se si sistemasse con piccoli gesti. Si accorsero che il peso era distribuito in modo da formare una sagoma umana, per quanto sfumata dagli strati di tessuto.
«O cavolo, ma perché?» Edward sembrava più eccitato che confuso.
«Perché tutto il resto. Visto che abbiamo seguito questa storia senza senso, tanto vale proseguire.» rispose Will.
«Io non sarei voluto venire.» precisò Joshua.
«Come ti ha convinto?» chiese Edward.
«Si è portata via una cosa che mi serve.» Edward sembrò intuire la natura del maltolto, così Joshua sentì l’esigenza di muoversi per evitare il suo sguardo. Era un uomo debole, ma onesto e non sopportava di dover mentire, neanche con lo sguardo; erano fatti suoi, solo suoi e nessuno doveva permettersi di giudicarlo.
Avanzando nella stanza, Joshua alzò le braccia sopra la testa, per vedere di quanto non raggiungesse il bozzolo. Mancavano venti centimetri perché potesse sfiorare quelle che sembravano le spalle della donna.
«Joshua» lo chiamò Will «Perché non prendi sulle spalle lui?»
Joshua ed Edward si guardarono per valutare se gradissero sentire il corpo dell’altro addosso.
«Per me va bene» concluse Edward «Ma come lo apro il telo?» chiese riferendosi al tessuto.
«Avete delle chiavi appuntite?» propose Joshua.
Ognuno si rovistò in tasca, tirando fuori quello che vi era contenuto. «Questa potrebbe andare» disse Edward saggiando con il polpastrello del pollice la punta di una chiave seghettata «Ci vorrà un po’ però: mi sembrano molti strati, non credo sarà facile tagliarli.»
«Va bene, ti tiro su. Se non riesco più a reggerti, te lo dico.» concluse Joshua.
Iniziarono ed Edward ce la mise tutta per fare in fretta, ma lassù il calore era maggiore e anche a causa dell’agitazione iniziò a sudare, mentre la chiave provava a sfuggirgli continuamente di mano.
«Ci sei?» chiese Joshua. Rendendosi conto che la sua voce era suonata troppo secca, aggiunse: «Resisto ancora per poco».
«Eccoci» Edward lanciò le chiavi a Will, che le afferrò al volo, poi prese i lembi del tessuto che aveva malamente strappato, tirandoli per allargare l’apertura. «Vieni sotto, Will»
I tre uomini erano protesi verso il bozzolo, da cui Lou fece capolino: prima sporse la massa dei capelli, poi la testa e le spalle.
«Non riesco a reggerla.» ansimò Edward con il viso rosso.
«Lasciala uscire, ci penso io.» Will era proteso con le braccia sopra la testa, la sigaretta elettronica tra i denti bianchi.
La donna scivolò fuori dal bozzolo con gli occhi chiusi. Il parto indolore era quasi terminato, quando dei fasci di luce uscirono dalla cavità lasciata vuota dal corpo, come se all’interno del bozzolo ci fossero dei faretti che, roteando, cambiavano di colore. Contemporaneamente partì la musica: prima ci fu un breve assolo di batteria, seguito dalle trombe che suonarono acute, mentre sotto di esse chitarra e basso correvano veloci.
Presi alla sprovvista da tale baccano, i tre uomini riuscirono a reggere il corpo della donna mentre scivolava loro addosso. Lou aprì gli occhi mentre le facevano poggiare i piedi a terra. In quell’istante la musica svanì, come pure le luci.
«Non era l’intro dei concerti di Elvis?» chiese Edward girandosi a guardare Joshua. Questo annuì, con un’espressione confusa sul volto. Will sorrideva, sempre più divertito da quello che stava accadendo.
«Grazie per avermi tirato fuori» esordì Lou «Prima di spiegarvi perché siamo qui, è il caso di spendere pochi minuti per conoscerci.»
I tre uomini rimasero in silenzio, in attesa di qualcosa. La canzone Fly Me To The Moon di Frank Sinatra attaccò come se fosse suonata nella stanza e Lou si avvicinò a Joshua, che stava alla sua sinistra.
Lou gli si fermò davanti, porgendogli la mano destra con il palmo dritto, perpendicolare al suolo, come chiaro invito a ballare. Joshua prese quella mano.
«Odio Sinatra.» borbottò Joshua, come se si sentisse costretto a prendere le distanze dalla canzone.
«Io odio Sinatra.»gli fece il verso Lou, imitando una voce nasale che non assomigliava neanche lontanamente alla voce profonda di Joshua, ma che doveva ricordare quella del puffo Brontolone; poi aggiunse:«L’ho scelta per l’atmosfera.»
Joshua la guardò in viso, poi parlò distogliendo lo sguardo, continuando a muoversi in cerchio a piccoli passi, intorno all’asse formato dai loro corpi: «Perché mi hai rappresentato così?»
Lou esitò, la fronte corrucciata. «Potevi dare di più; credo ti sia crogiolato nella gloria, senza approfittare del successo per evolvere. Sono molto arrabbiata con te.»
«Non esserlo, io non lo sono con te.»
«Ci proverò.» Lou si sentì meschina, allora strinse le braccia sopra le reni di lui, senza timore, affondando il viso nella T-shirt che odorava di detersivo e nicotina. Lui reagì chiudendo le braccia sulla schiena di lei come avrebbero fatte le due metà di una saracinesca. Con le dita Joshua sentì le ossa della schiena della donna emergere sotto il vestito e capì tutto di lei.
Il ballo finì, Joshua indietreggiò di un passo e Will si fece avanti. Lou era rigida mentre lui le cingeva la vita; si sentì costretta a rispondere a una domanda muta:
«Mi fai paura.»
«Perché?»
« Sento che puoi essere molto crudele.»
«Non mi conosci, che tu abbia dei poteri o meno. Non ti permettere più di giudicarmi.»
Lou annuì e rimase in silenzio per il resto del tempo. Will ignorò il suo disagio senza sforzo; volteggiò con lei con passi leggeri e poi la passò nelle braccia di Edward.
L’uomo fermò lo sguardo sugli occhi di Lou, che cercavano di appoggiarsi alla parete alle sue spalle.
«Sono troppo vecchio?» chiese senza risentimento.
La voce della donna aveva una punta di esasperazione: «Eri così speciale! Io non voglio ….»
«Chiudi gli occhi.»
La baciò con le labbra chiuse. La stretta del braccio dietro la schiena, la mano con cui le teneva il viso, gli occhi che la fissarono quando lei riaprì i suoi erano di un uomo senza età.
«Credi a ciò che senti, non a ciò che vedi.» disse Edward a bassa voce.
«Bene» disse Lou allontanandosi da Edward, mentre la musica sfumava «Entriamo nel vivo della questione: voi dovete salvare il mondo.»
Will fece esplodere la risata che covava da un po’; in essa non c’era malizia, ma puro divertimento. Anche gli altri ridevano, Lou compresa. Poi lei si fece di nuovo seria: «Divertente, lo so, ma è quello che dovete fare.»
«Salvare il mondo forse è un po’ troppo. Credo che dovreste salvare il vostro mondo, il che darebbe una scossa anche al resto. Un passo alla volta, insomma. Non vi chiedo di affrontare cose che non sapete fare.»
«Di cosa stiamo parlando, in sostanza?» incalzò Edward.
«Niente di complicato, dovete uccidervi.»
«Chi, noi?» chiese Will alzando platealmente le sopracciglia.
«Certo. E chi, io? Chi mi conosce a me?» rispose Lou.
«A me non fai ridere.» commentò Joshua con le braccia intrecciate sul petto.
Lou fece passare quel momento pieno di tensione, li osservò senza parlare, cercando di sembrare calma, poi aggiunse: «Non volete uccidervi? Bene, allora vi faccio un’altra proposta: fingete di uccidervi. Il sacrificio umano non ha portato mai a miglioramenti. Fingere di morire sarà sufficiente. Chiudete i vostri account pubblici, fate del vostro meglio per ritirare la merce che vi riguarda dal mercato. Ingegnatevi sul come, basta che spariate. Convincete i vostri colleghi a fare lo stesso. Io vi aiuterò, apparirò loro in sogno.
Fatelo tutti, per sei mesi almeno. Riuscirete a sopravvivere per quel lasso di tempo, no?» due teste annuirono. «Bene. Poi riapparirete, non preoccupatevi. Organizzate tutto con cura, però, senza fughe di notizie. Fate le cose seriamente.»
«Continuo a non capire perché hai chiamato noi. Se hai un piano così chiaro, potresti portarlo avanti da sola.» osservò Will. «Perché non lo fai tu, visto quello che sei riuscita a fare con noi?»
«Io posso esercitare una magia piccola: con i miei sogni creo paesaggi futuri migliori. La vostra magia, invece, è grande: potete creare le illusioni delle persone e la vita di molti si muove sulle illusioni, sulla speranza che qualcosa accadrà, qualcosa che spesso non accade. Voi siete i più potenti maghi rimasti. Non usare il vostro potere per cambiare l’immagine che le persone rincorrono, sarebbe la più grossa bestemmia concepibile da mente umana.»
«Perché piangi?» chiese Will.
«Perché mi fate arrabbiare. Non vi rendete conto del potere che ancora avete, oppure non v’interessa di sprecarlo. In entrambi i casi, è inaccettabile.»
Restarono in silenzio, l’eco delle parole della donna si dissolse lentamente, mentre il suo cuore rimbalzava dentro la cassa toracica.
«Continua» L’accondiscendenza nella voce di Edward le fece pensare a una lite tra coniugi e lei non voleva più sentirsi trattare così. Decise di tirare dritto, nonostante quei tre sguardi e il calore che sentiva alle guance.
«Alla fine riapparirete» continuò a spiegare a bassa voce «E parlerete al vostro pubblico: o la musica si acquista, o sparisce. O l’arte si sostiene, o sparisce. Vedrete che gli artisti degli altri ambiti vi seguiranno, hanno gli stessi vostri problemi. Non parlo dei ragazzini, parlo dei professionisti come voi, che ancora hanno un peso sul mercato, non in virtù dei soldi, ma dei fan che spostano.»
«Ci credi davvero?» chiese Joshua con occhi che erano diventati enormi nel viso disteso «Voglio dire al fatto che noi possiamo far cambiare idea alla gente, a migliaia di fan della nostra musica?»
«Perché credi stia scrivendo questa storia?» la voce di Lou suonò disperata.
«Quale storia?» chiese Edward.
«Quella in cui ci troviamo.»
Ci furono quattro interi minuti di silenzio. Intorno a loro solo la polvere si muoveva, illuminata dalla luce del sole che, ormai alto in cielo, entrava dalla finestra sporca. Lou allungò a Joshua la boccetta arancione, ma egli l’accolse con uno scossone del capo. Le si allontanò di un passo e prese sigarette e accendino dalla tasca anteriore dei jeans neri.
Will aspirava lunghe boccate dalla sigaretta elettronica, guardando con interesse i resti del bozzolo che avevano imprigionato Lou. Edward si mangiava le pellicine cresciute intorno all’unghia del pollice destro, l’altra mano in tasca, l’aria assorta.
Sembrava di stare nell’anticamera di un obitorio: c’era la stessa compostezza, lo stesso riguardo nel muoversi in silenzio, le facce ferme in espressioni rigide.
«Ci sto» bofonchiò Edward con il pollice ancora appoggiato alla bocca.
Will l’osservò, poi rispose: «Anch’io.»
Joshua guardò gli altri due, poi Lou, che sembrava supplicarlo con gli occhi. Quella richiesta muta gli dava fastidio, ma d’altronde aveva già deciso. Rispose guardando il soffitto: «Sì, anch’io»
I maghi non aggiunsero altro, ognuno sapeva cosa fare e come. La sacerdotessa li vide uscire dalla stanza; aspettò che l’ultimo se ne fosse andato, poi lasciò anche lei la stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Lou Damiano