Il 25 giugno del 1987, Edward Gillet, detto Ed, lasciò le coste di Monterrey, in California, a bordo di un kayak tradizionale di sei metri, con l’intento di raggiungere l’isola di Maui, nell’arcipelago delle Hawaii.
L’idea era più folle che coraggiosa.
Alle enormi difficoltà facilmente intuibili, si aggiunse il fatto che quello era l’anno di El Nino, il fenomeno periodico di inversione delle correnti che crea imprevedibili condizioni nel Pacifico.
Al momento della partenza, Edward aveva trentasei anni, di professione era guardia giurata, aveva grande esperienza di navigazione a vela e più di diecimila miglia di cabotaggio canoistico, maturate lungo le coste di tutto il mondo.
Ai giornalisti accorsi nel giorno della partenza, che manifestavano perplessità riguardo alle dimensioni di un piccolo kayak al confronto della vastità oceanica, Ed rispose che sopravvivere per mare dipende da preparazione, esperienza e prudenza, non dalle dimensioni della barca.
A bordo avevano trovato spazio novantacinque litri d’acqua, cibo per sessanta giorni, materiale da pesca, dispositivi radio ed un desalinizzatore.
Sua moglie lo accompagnò per un centinaio di metri a bordo di un’altra canoa spinta da un amico. Ed la salutò, le diede quello che poteva essere l’ultimo bacio e prese il mare senza ulteriori cerimonie.
La navigazione era tutt’altro che moderna, avvalendosi Edward solo di un sestante e di una carta nautica, alla maniera dei grandi navigatori del passato.
Il kayak, una canoa per due vogatori, dava la possibilità di dormire a bordo grazie a due galleggianti auto-gonfianti che rendevano stabilità all’imbarcazione.
Dopo soli pochi giorni, in cui il morale era stato abbattuto dalle costanti, difficili, onde oceaniche, il fondoschiena di Ed era pieno di vesciche causate dall’acqua salata ed ogni posizione era un supplizio.
Per due settimane, senza alcuna tregua, saggiò venti contrari di oltre trenta nodi: un’esperienza che rischiò di farlo impazzire.
Le notti erano dure, con onde che riempivano subito il kayak, costringendo Ed ad azionare la pompa di svuotamento.
Per raggiungere le Hawaii, Gillet, come quasi tutti i kayakisti di mare aperto, contava sull’ausilio di una piccola vela; per quattro settimane cadde, però, nell’incubo della bonaccia, in un mare aperto totalmente piatto.
A mille miglia dalla costa più vicina, piombò nella peggiore depressione marinaresca, mentre il sole lo consumava e le scorte di cibo tendevano a finire.
Il vento, d’un tratto, riprese a spirare in direzione sud-est ed i pesci cominciarono a cadere nella rete; fu la migliore epoca del viaggio, con onde formate e non eccessivamente alte, in ulteriore aiuto al mantenimento della rotta.
A 300 miglia dalle coste hawaiane, il vento cambiò e le correnti si fecero impetuose, facendo scarrocciare il kayak per miglia e miglia fuori rotta.
Se nulla fosse cambiato, avrebbe mancato le Hawaii di trenta miglia ed avrebbe dovuto puntare il Giappone nella speranza di incrociare una nave a cui chiedere soccorso.
Al sessantesimo giorno di navigazione, col vento tornato a soffiare nella direzione desiderata, il cibo finì.
Non c’erano più pesci e non c’era terra all’orizzonte.
Il giorno successivo mangiò i due tubetti avanzati di pasta dentifricia, calmando le angustie della fame.
Per due giorni pagaiò con la forza della disperazione, senza poter nutrirsi d’altro se non della propria speranza.
La disperata mattina successiva, mentre puntava il sestante al sole, la linea dell’orizzonte, necessaria per fare i calcoli della rotta, venne coperta dal vulcano Mauna Kea, che si stagliava 80 miglia più a ovest: Maui era quindi a sole 40 miglia.
Ci vollero altre trentasei ore di pagaia e vela per raggiungere una spiaggia sabbiosa alla destra del porto di Kahulhui.
Un abitante del luogo venne subito in suo aiuto per tirare in secco la canoa e gli chiese da dove fosse venuto.
Edward rispose che era partito da Monterrey, in California.
L’Hawaiano strabuzzò gli occhi e fischiò d’ammirazione. Ci saranno voluti almeno tre giorni, disse, devi avere una fame da lupo.
Sì, ho molta fame, gli rispose Edward.
Capì solo allora d’essere sopravvissuto ad una traversata di 2.200 miglia, la più lunga mai affrontata a bordo di un kayak da un essere umano.
Marco Nicolini