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Il quaderno

Il quaderno - Racconto di Marco di Grazia

Il quaderno

-Sai, chiudono il vecchio buco sotto la casa delle campane. Ormai è pericolante, poi c’è gente venuta da fuori che ha comprato la casa. La ristruttureranno e spianeranno tutto il colle- la voce di mio padre mi suona più perentoria di quella di un generale, mentre semplicemente, mi racconta al telefono quello che succede nel suo mondo. La casa delle campane, penso, mentre lui continua ad aggiornarmi sul gossip paesano. Il paese. Là dove sono nato e vissuto fino a quando la vita non mi ha portato altrove. Il paese. La vecchia casa delle campane. Il buco. Me ne ero quasi dimenticato. Accampando una scusa chiudo alla svelta la conversazione con mio padre, poi vado in camera e comincio a buttare all’aria i cassetti. Sono sicuro che c’è, che me lo sono sempre portato dietro, durante i vari traslochi della mia vita.

E infatti c’è. Da una cartellina di plastica marrone, insieme a fogli, appunti e ritagli di giornale, esce un vecchio quaderno, senza più copertina, con poche pagine, vergate a lapis da una grafia elementare, evidentemente più avvezza a usare altri strumenti che non la penna. Il vecchio buco alla casa delle campane. Il quaderno.

Era una primavera di tanti anni fa, avevo allora nove anni o forse dieci. Abitavo in un paese di poche case, in Toscana. La casa dei miei genitori si trovava, e si trova tuttora, a ridosso di un piccolo colle, su cui troneggiava una vecchia e grande casa. La casa delle campane, la chiamavano. Come un piccolo castello dominava il colle e le nostre paure di bambini con la sua sagoma spettrale. Infatti, si diceva, in quella casa dimoravano i fantasmi. Poco sotto, dove c’era un grande albero di ciliegie, nel bel mezzo del ciglio, si apriva un buco che spariva poi sottoterra. Era stato scavato chissà quando, ben prima della guerra, e serviva ai cacciatori per tenere cibo e vino al fresco durante le lunghe sedute di caccia estive. E, forse, anche per qualche riposino. E poi, pare, era servito anche durante la guerra. Così mi aveva raccontato tante volte mio padre.

-Serviva ai partigiani?- Chiedevo io. Ma mio padre non ricordava. Era piccolo, troppo piccolo, allora. Sapeva che ci si rifugiavano un po’ tutti, sia per paura dei tedeschi, sia, poi, per paura dei bombardamenti, quando arrivarono gli americani liberatori. Che erano liberatori, sì, ma intanto sganciavano le bombe, dai loro aerei.

E il buco continuava a stare lì, con quell’apertura a malapena coperta da un mucchio di frasche e a noi bambini era proibito entrare là dentro. Troppo pericoloso, dicevano i nostri genitori. Dovesse crollare, uno ci rimarrebbe dentro senza possibilità di uscire. E così era una zona inaccessibile. Off limits, diremmo oggi.

Che mi prese quel giorno, proprio non saprei dirlo, fatto sta che salii sul colle, deciso a entrare in quel buco. Avevo portato con me una torcia elettrica, un coltellino e una bottiglia d’acqua. Con quell’equipaggiamento da intrepido esploratore, mi calai nel buco, per accorgermi, dopo una lieve scivolata, che c’erano degli scalini scavati nella terra. Li percorsi e, in breve, mi trovai a esplorare un vero e proprio tunnel. Un’emozione indicibile, chissà da quanto tempo nessuno metteva piede là dentro. Passo dopo passo l’emozione saliva sempre di più, mentre la torcia cominciava a illuminare qualcosa. Un bossolo di fucile, poi una borraccia, poi una gavetta. Infine un cappello nero, di feltro. E poi… poi la debole luce inquadrò un piccolo quaderno. Lo presi e la copertina mi si sfaldò fra le dita, ma il resto rimase intatto. Continuai a esplorare quel buco, ma non trovai altro, dopodiché mi diressi verso l’uscita. Appena fuori, prima controllai che nessuno mi avesse visto, poi andai a sedermi alla base del ciliegio e aprii il quaderno che avevo portato con me. C’erano alcune pagine scritte a lapis. Cominciai a leggere. Le parole non erano molto chiare e la grammatica era disastrosa anche per me che ero piccolo, ma tutto sommato, ciò che vi era scritto era leggibile.

Così come lo è rimasto tutt’oggi, che il quaderno è ancora qua nelle mie mani e, ancora una volta, pronto a farsi leggere.
… è il terso giorno che sono sdraiato in questo buco. La ferita non sanguina più ma mi fa ancora male. Oggi Felice mi a portato una botiglia di vin bono e due pani cor presciutto di quelo stagionato che piace a me. E buono e mi piace. Felice è propio un’angelo se non ci fusse lui io ora sarei morto e sepolto da quei tedescacci e nazzisti maladetti che mi vogliano morto…

Stavo leggendo così avidamente che non mi accorsi che nonno Felice si era avvicinato.
-Che leggi?- Chiese facendomi sobbalzare. -E che ci fai qui? Lo sai che il tuo babbo non vuole che vieni qua?-

Lo guardai. Nonno Felice. Era lui l’uomo descritto nel quaderno, l’uomo che portava da mangiare a quel tizio che stava nel buco. Mentre lo guardavo e pensavo a queste cose, lui notò il quaderno. Capii che aveva capito. Mi alzai con un sorriso radioso dipinto in volto, pieno di ammirazione e di voglia di sapere cosa era successo. Lui spense tutto con un gesto, come a voler cancellare ciò che aveva attorno.
-Sei entrato nel buco eh? E ci hai trovato quello… buttalo via!-
-Ma… nonno…- balbettai.

Fu dura riuscire a convincerlo, ma poi mi disse tutto. Mi raccontò quella storia, anch’essa rimasta per tutto quel tempo sepolta nella buca, come il quaderno. Una storia che non conosceva nessuno, che lui non aveva mai voluto raccontare.

-Eravamo nella primavera del ’44- aveva esordito grattandosi la barba, dopo essersi seduto accanto a me. I tedeschi erano in fuga verso il nord, ma non avevano smesso né di combattere i partigiani, né di terrorizzare la popolazione. Il nonno, un giorno, era a lavorare nei campi, quando sentì una voce fioca che lo chiamava. Andò a vedere. Era un ragazzo, molto giovane, sdraiato in un fosso, che cercava allo stesso momento di nascondersi e di attirare la sua attenzione. Era ferito. Gravemente. Gli raccontò che era rimasto colpito durante uno scontro fra partigiani e tedeschi ed era riuscito a trascinarsi fin lì, mentre i compagni si erano fatti inseguire dai nazisti per dargli modo di cercare aiuto.
Il nonno ci aveva pensato un po’ su. Impossibile portarlo in una casa, tedeschi e fascisti presidiavano il paese e compivano delle irruzioni a sorpresa. Gli venne in mente il buco. Quel buco che era stato scavato da alcuni cacciatori. Il nonno si caricò il giovane in spalla e salì il colle, attento a non farsi vedere da nessuno. Giunto al buco lo calò giù e scese egli stesso. Lo curò alla meglio e se ne andò, promettendo di tornare presto, per portargli da mangiare e delle bende per fermare l’emorragia.
E così fece. Furono due giorni difficili, la ferita si era infettata e il ragazzo rischiava di morire, ma era giovane, forte e con la volontà grande di tornare a combattere per liberare il suo paese. E con l’aiuto del nonno si rimise in piedi.

-E non avevi detto niente a nessuno?- Gli chiesi.
-No- rispose. – Un giorno forse capirai. O forse mi giudicherai un vigliacco. Ma io lo feci per tua nonna. E per il tuo babbo, che allora era più piccolo di quanto sei tu ora. Il paese era pieno di fascisti, di tedeschi. Se si fossero accorti di qualcosa ci sarebbero andati di mezzo tutti e io avevo paura. La paura è il sentimento più umano che c’è. E io ne avevo tanta. Fossi stato da solo, forse… ma non lo ero. E non me la sentivo di fare come tanti, che pure ammiravo, che partivano per combattere. Tutto quello che potetti fare, fu di curare quel ragazzo; e i suoi occhi contenti, quando si rimise in piedi, furono per me la miglior soddisfazione-.
-Sì, ma dopo? Dopo che successe? Perché non hai mai detto niente per tutti questi anni?-
-Dopo successe che quel ragazzo, tornò con i suoi compagni e tutti insieme contribuirono a liberare il paese dai tedeschi- Si portò in bocca un filo d’erba e alzò gli occhi al cielo. -Vuoi sapere perché non ho mai detto niente? Neanche dopo? Perché non mi andava. Perché magari qualcuno mi avrebbe considerato più di quel che sono. Perché ho fatto qualcosa di cui allo stesso tempo sono fiero, ma mi fa vergognare di non aver avuto più coraggio. Te l’ho detto: un giorno, forse, capirai-.

E invece non ho mai capito. E continuo a non capirlo oggi, che rileggo queste poche pagine scritte in un improbabile italiano. Non ho mai capito perché nonno Felice mi fece giurare di non dire mai niente a nessuno di questa storia. E, a dir la verità, non ho mai capito nemmeno perché abbia rispettato il giuramento. Le azioni possono essere eclatanti o magari anche piccoli gesti, ma non cambia quello che è il loro effetto. Posso dire di essere fiero di nonno Felice. Forse non ha ucciso tedeschi, forse non ha combattuto e sofferto per la liberazione, ma sono ugualmente fiero di quel piccolo gesto: aver salvato la vita a un giovane partigiano che poi, forse, anzi sicuramente, avrà salvato la vita ad altre persone. E io continuo a non capire, mentre me ne sto qui, vicino al vecchio ciliegio, dove sono accorso, prima che chiudano il buco. Il babbo è giù, a casa. E’ rimasto sorpreso quando mi ha visto e quando gli ho detto che volevo vedere il buco un’ultima volta, prima che lo chiudessero. E da solo.

E ora sono qui davanti, con il quaderno in mano e con una storia che nessun altro saprà mai, ma che avrei voglia di gridare ai quattro venti. E forse lo farò, forse è arrivato il momento di tradire quel giuramento. Ma intanto getto il quaderno nel buco. Lo getto lì per far rimanere fuori il ricordo. Seppelliscano pure qualche foglio di carta; da oggi mi darò da fare per riportare alla luce e alla memoria, invece, una storia di resistenza. Ce n’è sempre bisogno, in un mondo che tende a dimenticare e a commettere gli stessi errori.
La storia di un giovane partigiano ferito e di un uomo umile e riservato che gli salvò la vita.

 

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Marco di Grazia

Nasce a Pescia (PT) nel 1969, esordisce nel fumetto nel 1997 come sceneggiatore della serie umoristica “Non calpestare le margherite” e della serie “Area 51” per i disegni di Marcello Mangiantini, con cui pubblica anche racconti brevi sulle riviste “Selen”, “Il giornale dei misteri”, “Gli amici del 2000”. Nel 2003 si occupa dei testi, sempre per i disegni di Mangiantini, della miniserie western “Il Diavolo Bianco”, anno in cui vince, inoltre, il concorso Giallowave e pubblica il racconto “Un facile caso”. Nel 2008 esce il primo romanzo, “Li chiamavano Bartali e Coppi”, seguito nel 2010 da “L’Ottavina di Dio” scritto a quattro mani con Francesco Villari, con cui pubblica, nel 2016 un altro romanzo: “Democracia Futebol Clube”. Nel 2016 è finalista del Lucca Project Contest con la graphic novel “Cinque minuti due volte al giorno; nel 2017 scrive la piece “Vixerunt”, una storia narrata, disegnata e recitata, e il racconto\fiaba “L’uomo che custodiva la musica” con le illustrazioni di Cristiano Soldatich. Fa parte dello “Studio Sciupòn” insieme ai disegnatori Giovanni Ballati, Riccardo Innocenti e Cristiano Soldatich e allo sceneggiatore Iacopo Innocenti; e del collettivo di artisti “Abrazo Futbolero”, attivo in tutta Italia con mostre, manifestazioni, presentazioni e diverse altre attività.

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