Melodaiunsoldino?
Correva. Correva a perdifiato giù per quel sentiero in discesa. Correva come non aveva mai corso in vita sua. Correva sbuffando, con il cuore in gola e incurante del dolore causato da tagli e graffi che i piedi nudi si provocavano su pruni e sassi aguzzi. Correva senza sentire più niente, con gli occhi sbarrati e le mascelle serrate. Correva.
E corse fino a che non arrivò a quella vecchia casa abbandonata ai margini del bosco. Là dove, fino ad allora, aveva sempre avuto paura anche soltanto ad avvicinarsi. Continuò a correre e raggiunse la porta sfondata. Entrò. Si guardò attorno approfittando della luce della luna che filtrava dalle finestre senza più vetri. Vide una scala. Salì.
Raggiunse il primo piano di quella casa, ormai da tempo abitata soltanto da topi, scarafaggi e insetti vari. C’era una finestra, diede un’occhiata di fuori. Nessuno. Nessuno lo aveva seguito fin lì. Cosa doveva fare adesso? Non lo sapeva, sapeva solo di avere una gran paura. Per quello si era rifugiato là, in quella casa da molti ritenuta maledetta: per sfuggire a chi voleva fargli del male. La chiamavano la casa dalle cento finestre, ed era una grande costruzione in stato di abbandono, situata in una radura a fianco di un sentiero ai margini del bosco e ormai quasi restituita al verde e alla natura. Si diceva che tanti anni fa, là dentro, si fossero compiuti dei delitti terribili. Si diceva che nelle stanze vagassero ancora gli spiriti dei bambini che lì erano stati uccisi dal vecchio proprietario. E si diceva che anche il suo spirito inquieto si aggirasse ancora fra quei luoghi. Uno spirito senza pace, dopo la morte violenta del suo corpo terreno, ucciso dai suoi compaesani. Il mostro, così tutti lo chiamavano. Il mostro che aveva seminato terrore, lo stesso che poi aveva visto con i suoi occhi prima di morire. Per questo, nessuno andava mai fin là. Si sporse ancora alla finestra e mosse attentamente gli occhi ma non scorse nessuno. Cominciò a pensare di avercela fatta e, per la prima volta da quando era cominciata la sua fuga, provò un leggero senso di rilassamento. Si diresse fino a una poltrona che si trovava a qualche metro di distanza, proprio sotto un’altra finestra. I piedi nudi si mossero leggermente sul pavimento sporco poi, giunto alla meta, si appoggiò al bracciolo della scassata poltrona continuando a guardare di fuori.
La radura di fronte era ben illuminata dalla luna. Guardava attentamente senza nemmeno rendersi conto di cosa andava cercando con gli occhi. A un tratto si rese conto che era completamente nudo. Si guardò provando un forte imbarazzo, poi si raccolse con le braccia attorno alle ginocchia, cercando in qualche modo di ripararsi. Aveva paura. Ogni piccolo rumore lo faceva sobbalzare, ma non riusciva ad alzarsi, non riusciva più a muovere un muscolo.
Un forte vocìo proveniente da fuori lo fece sobbalzare. In un attimo scomparve la paura dei fantasmi dei bambini e del loro persecutore che infestavano la casa. La paura dell’ignoto si tramutò in quella del reale. Le voci si avvicinavano alla casa. Vide, attraverso la finestra, delle luci che avanzavano. E le voci che diventavano sempre più nitide.
-E’ là dentro quel bastardo!- Sentì dire chiaramente.
Seguirono minuti, chissà quanti, di angoscia. Lui era lì, appostato a quella finestra al primo piano, immobile, nudo, raccolto in se stesso. E fuori quelle voci che si facevano più nitide, più insistenti, più minacciose. Sentì, a un certo punto, che qualcuno stava entrando in casa. E ora cosa sarebbe successo? Ma che aveva fatto lui di male per essere finito in una situazione del genere? Perché quella sera, che doveva essere per lui di gloria, si era trasformata in quell’incubo? Aveva migliaia di pensieri che si rincorrevano, ma non riusciva a dar loro un ordine. E non riusciva nemmeno a ricomporre tutto quanto era successo.
Ormai le voci erano là sotto. Sentiva l’odio nelle parole, nei toni, nelle urla. Sentiva che stava per essere punito, che la violenza di quel posto sarebbe ricaduta su di sè. Chiuse gli occhi respirando profondamente. Le voci si facevano sempre più forti, sempre più minacciose. Fino a quando cessarono.
Seguì un tempo indefinito a cui lui non seppe dare una misura, in cui ci fu silenzio totale. Tornò ad aprire gli occhi, ma non aveva il coraggio di guardare fuori dalla finestra. Poi, una voce unica, secca, perentoria, squarciò il silenzio che si era fatto.
-Ultimo!- Sentì dire dal piano inferiore. -Ultimo, sei qui?-
Gli parve di riconoscere quella voce, schiuse le labbra, ma rimase lì, immobile nella sua posizione fetale, a bocca aperta, senza emettere un suono.
-Ultimo, ci sei?- La voce echeggiò ancora fra le grandi stanze della vecchia casa.
-Lo chiameremo Primo- Trillò allegramente la Rosina quando ebbe la conferma di essere incinta. Le sue gote si illuminarono di un fresco velo rosaceo e il sorriso si irradiò per tutta la sala. Aveva vent’anni, la Rosina. Vent’anni e un marito che pochi mesi prima le aveva messo al dito l’agognato anello. Perché lei, fin da piccola, solo quello aveva desiderato: sposarsi e avere tanti figli. E il nome del primogenito, se maschio, sarebbe stato Primo. Poi ne sarebbero seguiti tanti altri. E sentiva che quello che portava in grembo era un maschio.
Sul sesso del nascituro ci aveva azzeccato, sul resto non molto. La Rosina, infatti, morì di parto nel mettere al mondo quel figlio tanto desiderato.
Ferruccio, il padre, al contrario della Rosina non era mai stato entusiasta per la gravidanza e, la morte della moglie per far nascere quel bambino, fece il resto. Controvoglia, Ferruccio andò a vedere questo figlio assassino e rimase interdetto quando se lo trovò davanti. Non aveva grande esperienza di bambini; lui credeva che appena nati fossero come bambolotti. Il piccolo, invece, aveva la testa piuttosto grossa e malformata, come a volte accade ai neonati. Ferruccio storse la bocca e arretrò di un passo.
-Ma è un mostro!- E fu l’unica cosa che riuscì a dire, poi gli diede il nome Ultimo, lo fece battezzare e se ne andò via. Sparì. Forse tornò al suo paese, che peraltro nessuno sapeva dove fosse. Quale che fosse la sua destinazione, comunque, nessuno lo vide più e da un momento all’altro il piccolo Ultimo si trovò solo al mondo, visto che la Rosina non aveva parenti. Fu così affidato alle suore dell’orfanatrofio e lì crebbe, fra ceffoni, rimproveri e umiliazioni. Non era certo un genio, Ultimo, né le suore a cui era stato affidato fecero qualcosa per migliorare la sua condizione. Anzi: “sta’ zitto infelice!” era uno dei modi più gentili con cui gli si rivolgevano. E, in effetti, non ebbe né un’infanzia, né tanto meno una gioventù felice, il povero ragazzo. Che con il passar del tempo era rimasto nell’ambiente della chiesa e, poco prima di compiere i venti anni, era diventato sacrestano al posto del vecchio Vincenzo, che ormai non ce la faceva più nemmeno a sistemare i calici nel tabernacolo. Puliva, sistemava la canonica e la sacrestia e assorbiva con estrema pazienza i rimbrotti del parroco quando c’era qualcosa che non andava per il verso giusto.
Il ragazzo in paese era conosciuto anche come Soldino. Questo perché quando era fuori dalla canonica e gironzolava per le strade, a ogni persona che incontrava ripeteva sempre la stessa litania: Melodaiunsoldino? Melodaiunsoldino? Melodaiunsoldino? E così via. E insisteva e insisteva fino a quando non si beccava una moneta, oppure, e non era raro, un insulto. A volte qualcuno aveva anche alzato le mani su quel povero ragazzone che tutti consideravano lo scemo del villaggio. Come quella volta che aveva incrociato l’Aurelia, che scendeva in paese dalla villa della marchesa per fare la spesa. Aveva un diavolo per capello, quel giorno, l’Aurelia. La notte precedente aveva sognato il suo Bepi, ma, al momento di abbracciarlo e concedersi a lui, il suono delle campane l’aveva svegliata. Era così infuriata con il mondo, i preti, le campane e compagnia bella che, si diceva mentre camminava a passo svelto, se avesse incrociato un vescovo se lo sarebbe mangiato. Ultimo, vescovo non era, ma fra le altre sue mansioni aveva anche quella di campanaro e in quel momento per l’umore dell’Aurelia era anche decisamente peggio. Con il suo passo dondolante le si era avvicinato mentre lei procedeva sul sentiero polveroso.
-Melodaiunsoldino?- Le aveva chiesto sorridente.
In tutta risposta l’Aurelia aveva ruotato in aria la borsa per poi fargliela atterrare in faccia e ci aveva aggiunto due improperi masticati con rabbia, prima di allontanarsi sculettando come solo lei sapeva fare. Ultimo era rimasto seduto in terra, nella polvere, a massaggiarsi la guancia e ad ammirare quel maestoso culo che si allontanava.
Ma nei pensieri di Ultimo non c’era l’Aurelia, che pure era una gran bella ragazza e ambita da tutti i maschi del paese e non solo. Lui aveva perso la testa per la Luisa Berloni, una coetanea che apparteneva a una delle famiglie più ricche del paese. Si era infatuato della Luisa qualche anno prima, quando erano poco più che adolescenti. Ultimo faceva il chierichetto in Chiesa e, durante la messa, si occupava della questua. Una domenica, passando accanto alla panca dove sedeva la Luisa insieme con la madre, il suo sguardo incrociò quello della ragazza. Ultimo rimase lì, immobile, con il cestello in mano e la bocca aperta, mentre la Luisa con un colpetto di gomito aveva attirato l’attenzione della madre. La signora Berloni si era voltata verso il giovane e, a denti stretti, gli aveva ordinato di andare via. Ma Ultimo non si era mosso. Era rimasto come pietrificato, con le gambe che tremavano, il cuore che batteva forte e uno strano brivido misto a dolore che sentiva provenirgli da sotto i pantaloni. Sembrava una statua, fermo lì, di lato alla panca di legno. Piano piano tutti si erano voltati verso di lui e anche il parroco aveva interrotto la messa. Era entrato il vecchio sacrestano e, prendendo Ultimo per un braccio, lo aveva accompagnato in canonica. Da quel giorno, il parroco gli aveva vietato di avvicinarsi alla Luisa. Ma perché? si era chiesto Ultimo, senza però dare voce a quel pensiero, che era rimasto un quesito irrisolto nella sua testa.
Con il passare degli anni l’ossessione per la Luisa non si era placata, tutt’altro. Ultimo la guardava quando passava per strada assieme alle amiche o ad altri ragazzi. Ammirava quei ragazzi così spigliati, sorridenti, eleganti; avrebbe voluto essere come loro. Avrebbe voluto anche lui abbracciare la Luisa e allontanarsi con lei. Invece era sempre solo, nessuno voleva stare con lui, nessuno voleva parlare con lui. Tanto meno la Luisa, tranne quella volta in cui gli si era avvicinata, un giorno che lui era andato a pescare. Non l’aveva sentita arrivare e quando se l’era trovata davanti, la canna da pesca gli era caduta di mano finendo in acqua.
-Ciao- gli aveva detto lei e, senza aggiungere altro, si era alzata la gonna, poi aveva cominciato a ridere ed era scappata via. A Ultimo era parso di sentire anche altre voci e altre risate, ma non ci aveva fatto molto caso. Era rimasto immobile, seduto su quel masso e lì lo avevano trovato solo a tarda sera quando, preoccupati del suo ritardo, il parroco e il sacrestano si erano messi a cercarlo.
Lui, invece, si era messo in testa che un giorno l’avrebbe sposata, la Luisa. Si immaginava come un principe con il suo cavallo bianco, che la faceva salire in sella e la conduceva via. Una fiaba che viveva tutte le notti non appena chiudeva gli occhi. Quegli occhi da bambino che non lo avevano mai abbandonato, anche quando era ormai diventato un adulto.
-Ultimo! Ma che te ne fai di tutti quei soldini?- Gli chiedeva ogni tanto qualcuno. Lui allora rideva contento, sbatteva forte le palpebre, muoveva il collo avanti e indietro e rispondeva: -Li metto da parte e poi quando ce ne ho tanti faccio un bel regalo alla Luisa!- E poi si metteva alle costole del primo passante e ricominciava con il suo tormentone.
-Melodaiunsoldino? Melodaiunsoldino? Melodaiunsoldino?
Un giorno Ultimo stava passando vicino al bar quando incrociò due ragazzi: uno era il Ferroni, un biondo butterato che pretendeva di essere chiamato solo per cognome perché odiava il nome di battesimo, e non aveva tutti i torti, visto che gli sciagurati dei suoi genitori lo avevano chiamato Antilopo; l’altro era Mauro, detto il Trombino, per le sue dichiarate capacità amatorie. Ferroni e il Trombino erano sempre insieme ed erano due dei bulli del paese. Ultimo aveva paura di loro: fin da quando erano piccoli gli avevano sempre fatto scherzi di ogni genere e, qualche volta, si erano divertiti a picchiarlo. Ogni volta che li incontrava cambiava strada ed erano le uniche due persone a cui non si rivolgeva con la sua richiesta del soldino. Anche quel giorno, non appena li vide, incassò la testa nelle spalle e fece per cambiare direzione, ma fu fermato dalla voce di uno di loro.
-Soldino! Oh…Soldino!-
Ultimo non sapeva che fare. Continuò a camminare nella nuova direzione, ma sentì i passi dei due che si avvicinavano.
-Soldino… e che non si salutano più gli amici?- Il Ferroni gli sorrise mostrando una fila di denti gialli e storti.
-E lo credo bene- si intromise il Trombino, spingendo di lato l’amico e piazzandosi proprio di fronte al giovane sacrestano. -Con tutte quelle che gli hai fatto, ha ragione il nostro Ultimo, qui, a non salutarti. E’ uno stronzo il Ferroni, vero Ultimo?-
Il ragazzone iniziò a muovere le labbra ma senza emettere alcun suono; guardava ritmicamente i due che gli erano apparsi davanti. Il Trombino gli aveva appoggiato la mano sulla spalla.
-Dài, che dici, andiamo a bere qualcosa? Eh? Cos’è che ti piace?-
A Ultimo si illuminò il viso. -Co…cacola- rispose tutto di un fiato dopo la pausa iniziale. E lo disse con gli occhi, che brillavano di felicità.
-Coca cola!- Ripetè il Trombino e fece pressione con la mano sulla spalla di Ultimo invitandolo a seguirlo. Tutti e tre si diressero verso il bar.
-Sibemolle dacci tre coche!- Gridò Ferroni appena varcata la soglia del bar\osteria del paese. Il proprietario, rimase con le braccia appoggiate sul bancone, guardando con sospetto il terzetto.
-Che avete in mente voi due?- Poi puntò gli occhi su Ultimo. -Soldino, ti hanno fatto qualcosa?-
Ultimo non fece nemmeno in tempo ad aprire bocca che il Trombino si era avvicinato al banco sorridendo.
-Ma che dici Sibemolle? Ultimo è con noi, abbiamo voglia di berci una cosa insieme… ma che è? State sempre a dire che è solo, che dovremmo considerarlo di più e una volta che lo facciamo non va bene?-
-Appunto… voi due non lo avete mai fatto e vi conosco, testine di cazzo! Se avete in mente qualcosa contro quel poveretto là poi fate i conti con me.-
-Intanto fammi il conto delle coche, barista-
Sibemolle prese le tre bottigliette di coca cola e le sbattè sul tavolo con fastidio, quasi strappò dalla mano del Trombino la banconota che gli aveva porto, gli fece il resto e si sistemò di nuovo con i gomiti sul bancone a osservare i tre, che stavano uscendo dal bar per andare a sedersi fuori. Iniziò a mordersi nervosamente le labbra.
-Hai capito? Un’occasione così chissà quando ricapita!-
Ultimo scosse la testa, che teneva bassa, puntata a terra.
-No, no… io no- Balbettò timidamente. -Io non so…-
-Ma come non sai…dài Ultimo…- Il Trombino gli affibbiò una pacca sulla spalla. -Sei un uomo ormai e un uomo deve andare con le donne! Dì… ti piacciono le donne?-
Ultimo alzò il capo e aprì bocca piano piano, sorridendo leggermente. -Mi piace la Luisa- soffiò piano.
-La Luisa è una donna vera!- Riprese grave il Trombino. -Credi che si accontenti di chi non ne ha mai conosciuta una? Dammi retta Ultimo… dopo che avrai scopato ti sentirai un’altra persona e dopo anche la Luisa…-
Ultimo lo guardò speranzoso. -Le potrò comprare il regalo con i miei soldini?-
-Tutti i regali che vuoi- Rispose il Ferroni. -E vedrai come sarà contenta di vedere che un vero uomo è innamorato di lei-
-E poi, scusa…- si intromise nuovamente il Trombino -non vorrai mica arrivare a fare l’amore con la Luisa senza essere esperto? Sarebbe brutto per lei, lo capisci? Se ne accorgerebbe che non sei un uomo vero…-
A quelle parole Ultimo arrossì ancora di più e riprese, con lo sguardo, a cercare in terra qualcosa che non c’era.
-Allora siamo intesi?- Disse ancora il Ferroni -veniamo a prenderti stasera alle nove. Fatti trovare pronto va bene?-
-Ma… voi siete miei amici?- Flautò leggermente Ultimo.
-Noi siamo i tuoi migliori amici, Ultimo. Ti vogliamo bene e vogliamo che tu sia contento. Potevamo portarne altri, stasera, ma vogliamo che sia tu a venire con noi-.
Ultimo rimase ancora un po’ con lo sguardo posato a terra. Non sapeva che pensare, ma era felice. Finalmente aveva degli amici; forse aveva giudicato sempre troppo frettolosamente quei due ragazzi. Alzò lo sguardo e un sorriso placido gli si dipinse sul volto.
-Va bene amici- disse.
-Bravo Ultimo! Allora hai capito? Passiamo alle nove-.
I due si allontanarono salutandolo con le mani alzate. Ultimo finì di bere la coca-cola e anche lui si avviò verso la canonica. Fatti pochi passi incrociò Gino il bottaio che andava verso l’osteria.
-Melodaiunsoldino?- Gli disse euforico. Gino mise la mano in tasca ma, quando aveva estratto la moneta Ultimo era già lontano che saltellava sulla strada bianca. Mah… pensò il bottaio, e rimise la moneta nella tasca.
-Ultimo ci sei?- La voce del maresciallo Calindri risuonò ancora imperiosa nella grande casa. Il ragazzone alzò leggermente il capo, tenendo gli occhi fissi verso la porta spalancata della stanza in cui si trovava. Era ancora rannicchiato nella stessa posizione in cui si era messo non appena giunto là dentro. Nudo, spaventato, graffiato e sanguinante per la corsa nel bosco.
-Ultimo!- Ora la voce era più vicina. Il maresciallo si stava avvicinando. Vide muoversi la luce di una torcia elettrica. Chiuse gli occhi.
-Ultimo… che è successo?-
Sentì invadersi il viso dal fascio di luce. Strinse con forza gli occhi, cercando di incassare il volto fra le spalle e le cosce. Sentì il tocco della mano posarsi sulla spalla. Spiccò un balzo sulla poltrona e cadde all’indietro, andando a sbattere la testa contro la parete. Fuori le voci avevano ricominciato a farsi sentire. Il maresciallo si affacciò alla finestra e diede un ordine secco.
-Falli stare zitti, D’Ambrosio! Se qualcuno si rimette a urlare, arrestalo!-
Immediatamente le voci cessarono. Il maresciallo si avvicinò al ragazzo, ora seduto per terra, che cercava di nascondersi dietro le sue stesse mani.
-Ultimo, stai tranquillo, ci sono io, qui, nessuno ti farà niente. Ora mi faccio portare qualcosa da metterti addosso e ce ne andiamo, va bene?-
-Voglio stare qui- Uggiolò Soldino.
-Non puoi stare qui, lo capisci? Questa casa è pericolante. Ora vieni con me e mi racconti tutto quanto è accaduto, poi devi medicarti. Guarda qua…- e indicò i piedi sanguinanti del ragazzo. -Rischi un’infezione, così-
Pochi minuti dopo, Ultimo usciva dalla casa, accompagnato dal maresciallo Calindri e da altri due carabinieri. Indossava un lungo cappotto scuro che gli avevano messo sulle spalle e teneva la testa bassa puntata a terra. I quattro passarono fra due ali di gente. Ultimo sentì che lo insultavano, che lo chiamavano “bastardo” e altre offese. Qualcuno cercò di dargli un pugno, ma fu fermato dai carabinieri. Il maresciallo gridò a tutti di stare fermi e zitti, sennò li avrebbe portati in caserma. Ultimo sentì, fra le altre, una voce che conosceva bene. Alzò gli occhi e si trovò di fronte la Luisa, che lo guardava con occhi sprezzanti. La ragazza gli sputò in faccia quando lui le passò accanto. Si sentì morire, anzi, era già morto. Perse i sensi e i due carabinieri dovettero prenderlo e sollevarlo di peso per portarlo via.
Si riprese nel letto della sua stanza attigua alla canonica. Sentì la coperta calda e confortante che lo avvolgeva. Fece una rapida panoramica della stanza: c’erano il dottor Moroni e il maresciallo Calindri che lo guardavano. Istintivamente nascose la testa sotto le lenzuola. Il maresciallo prese una sedia di plastica e sedette accanto al letto.
-Ultimo… Ultimo, mi senti? Non avere paura, è finito tutto. Ora vuoi raccontarmi quello che è successo?
Ultimo fece capolino piano piano da sotto il suo rifugio e i suoi occhi puntarono quelli benevoli del maresciallo. Sentiva le lacrime che avevano voglia di scendere giù a rigargli il volto. Cercò di ripensare a quella serata, a cosa era successo, a perché adesso si trovava dolorante nel suo letto e un carabiniere era lì accanto a lui a chiedergli cose che nemmeno lui sapeva spiegare. E il parroco? Si chiese. Dov’era? Chissà come si stava vergognando di lui.
-Eccoci arrivati!- Il Ferroni saltò giù dalla sua Vespa e la mise sul cavalletto in mezzo al sentiero che tagliava in due il bosco. Un metro più indietro, il Trombino eseguì la stessa operazione, che gli risultò più faticosa, in quanto Ultimo era rimasto seduto sul sedile posteriore della Vespa del ragazzo, limitandosi ad appoggiare i grandi piedi a terra.
-Andiamo, Ultimo!- Lo incitò il Trombino indicando avanti a sè. Il Ferroni si era già incamminato ed era scomparso nel sentiero buio.
-Dove?- Domandò Ultimo titubante. In realtà si stava chiedendo cosa ci facesse là. Aveva una gran voglia di chiedere ai due suoi nuovi amici di riportarlo indietro, ma si vergognava a farlo. Il Trombino gli cinse le spalle per esortarlo a smontare dalla Vespa.
-Dài su- disse. Ultimo si lasciò convincere. -Bisogna entrare nel bosco… fino al capanno del Mugnanini.
Il Mugnaini era un vecchio cacciatore che aveva costruito un capanno da caccia nel bosco che, piano piano, aveva assunto le dimensioni e le comodità di una casetta vera e propria e, proprio come in una casa, il vecchio ci aveva portato una brandina sulla quale, spesso, si riposava, nelle giornate in cui gli uccelli non si decidevano a farsi impallinare.
Ultimo seguiva il Trombino sul sentiero, tenendo la testa bassa e le orecchie aperte. Giunsero fino a una grande quercia, dove il Ferroni li attendeva. Ultimo alzò gli occhi e scosse la testa stupito. Il Ferroni era in mutande. Il Trombino ridacchiava soddisfatto.
-E chi ti ha detto che vai prima te, Ferroni?-
-Fatti i cazzi tuoi! Le ultime due volte la prima botta l’hai data tu, stasera tocca a me.-
-Va bene, va bene- il Trombino aprì i palmi delle mani davanti al petto -vai pure prima tu, se vado io poi dopo non ha più voglia di nessuno- e, voltatosi verso Ultimo, gli rivolse un occhiolino spavaldo. Ultimo non capì.
Il Ferroni si allontanò in mutande, mentre il Trombino si fregava le mani. Ultimo cominciò a sentire un brivido di freddo percorrergli la schiena. Aveva voglia di scappare, ma non riusciva a muovere le gambe. Pochi secondi dopo sentì una voce femminile e il Ferroni che le rispondeva. Il Trombino gli intimò, con il dito sul naso, di stare zitto. Raccomandazione inutile: Ultimo era pietrificato e non sarebbe riuscito a spiccicare una parola nemmeno se avesse voluto. In breve il silenzio della notte fu rotto da una serie di mugolii che diventavano sempre più forti, poi sostituiti da grugniti, tanto che a Ultimo sembrò di trovarsi nelle vicinanze di una belva feroce. Pensava ai leoni e alle illustrazioni che vedeva nei libri del Parroco. Infine, urla. Urla di piacere, di godimento, di incitamento. Ultimo cominciò a sentire un fremito strano percorrergli il corpo e le gambe diedero un leggero segno di cedimento. Il Trombino si voltò verso di lui.
-Dài Soldino, spogliati!-
-Eh? Come?- Rispose lui.
-Sì, spogliati, dài. Lo vedo quanto sei eccitato. Toccherebbe a me, ora, andare, ma ti lascio il piacere. Senti come urla la cagnetta? Stasera è particolarmente in calore.-
-Ma… ma… io…- balbettò confuso il ragazzone.
-Su, su… non fare il timido. Il Trombino gli prese la maglietta e gliela alzò -Spogliati che la Gianna non vuole vedere vestiti!- Rise, mentre dal capanno di caccia continuava il concerto di grida lussuriose. Ultimo si scosse, qualcosa di mai sentito prima, mai così forte, lo aveva invaso. Si tolse maglietta e pantaloni, rimanendo così in mutande. Dei grossi, ridicoli mutandoni a strisce. Il Trombino lo guardò con aria professionale.
-Secondo me se ti presenti con quelle mutande, la Gianna ti rimanda indietro. Toglile!-
-Co… come?-
-Sì, dài, toglile. Tanto ci siamo solo noi qua, chi vuoi che ti veda? La ragazza sarà più contenta.- Le ultime parole del giovane furono condite da un ruggito gutturale che fece tremare le foglie degli alberi. Poco dopo un trionfante Ferroni, mutande sulla spalla, faceva ritorno presso i due amici.
-Che scopata!- Disse mentre si rivestiva. -Stasera è decisamente selvaggia la Gianna. Oh, Ultimo, guarda che mi ha detto che è da un po’ che ti ha messo gli occhi addosso e che vuole farsi scopare da te! Vai e fatti onore, ragazzo!-
Ultimo deglutì. Ora si sentiva di nuovo con le gambe piombate sul terreno. Ci vollero un paio di spinte da parte degli altri ragazzi, prima che, timidamente, cominciasse a posare un piede avanti l’altro e a incamminarsi, completamente nudo, verso l’improvvisato talamo.
Ultimo si interruppe. Fin lì aveva balbettato con grande fatica. Sentiva il cuore esplodergli nel petto e non riusciva più a emettere un suono. Il maresciallo Calindri gli fece bere un po’ d’acqua.
-Su, Ultimo, bevi- disse paterno il carabiniere. -Te la senti di continuare?-
-Se vuoi te la racconto io la fine di questa storia, maresciallo!-
Calindri e il dottore si voltarono di scatto. Sulla porta era comparsa l’imponente figura di Sibemolle, il barista. Corrugò la fronte e fece cenno al maresciallo di raggiungerlo nell’altra stanza. Questi si mosse, ma prima scambiò un segno di intesa con il dottore.
Ultimo guardò il maresciallo e il barista uscire dalla stanza e pochi secondi dopo, dallo stesso punto in cui aveva fissato lo sguardo, vide entrare Don Antonio. Si mise a piangere, mentre il parroco gli prese le mani fra le sue tentando di confortarlo. Ultimo sprofondò con il volto sotto il lenzuolo. Sentiva la vergogna avvolgerlo come una coperta ruvida di quelle che provocano un prurito insopportabile.
-Insomma sarebbe tutto uno scherzo? E tu come lo hai capito?-
-Mi ha insospettito che quei due scioperati stessero insieme a Soldino, lì, nel mio bar. Di solito si divertono a prenderlo in giro o a combinargli qualcosa, quindi non mi tornava che facessero così gli amiconi. Di sicuro c’era qualcosa sotto.-
-Bravo, magari ti arruolerò fra i carabinieri. E allora, quindi? Che hai fatto?-
-Purtroppo, lì per lì non ho fatto niente. Stavo soltanto a pensarci. Poi, durante la serata ho visto gruppi di ragazzi che si ritrovavano e partivano, allora ne ho interrogati alcuni e sono venuto a sapere che stavano per fare a Ultimo lo scherzo della Gianna-
-Questo me l’hai detto poco fa. Ora mi vuoi spiegare in cosa consiste questo scherzo?-
-Per fartela breve, si sceglie un pollo e gli si prospetta una serata a base di sesso con una ragazza ninfomane che non vede l’ora di soddisfare le sue voglie. Di solito partono in tre o quattro, si dirigono verso un luogo prefissato e poi uno di loro si spoglia e va da questa ragazza che, naturalmente, non si fa vedere.-
-E poi?-
-E poi… comincia tutta una recita fatta di urla, mugolii… insomma, i due fanno finta di scopare, così il pollo si eccita ben bene. Quindi quando il primo ha finito, se ne torna indietro trionfante e dopo… dopo tocca al pollo. Che prende e va.-
-Va.-
-Eh sì, va. E come è contento di andare-
-E poi?-
-Poi succede qualcosa di cui il pollo è stato messo a conoscenza, ma ormai a quel punto si è già dimenticato tutto. Durante il tragitto, coloro che organizzano lo scherzo gli fanno presente che la ragazza ha un fratello geloso e violento, che se la sorprendesse a fare quello che fa ammazzerebbe lei e l’uomo che ci è insieme. Raccontano il tutto facendo spaventare il pollo, ma come ti ho detto, bastano pochi minuti e qualche finto orgasmo che non ci pensa più. Fino a quando…-
-Fino a quando salta fuori questo “fratello” giusto?-
-Giusto, maresciallo. Il fratello salta fuori urlando come un pazzo e dimenando un bastone. La ragazza finge di essere atterrita e grida anche lei. Urla al pollo di scappare che sennò il fratello l’ammazza…-
-E lui scappa!-
-E tu che faresti? Certo che scappa. E come corre… tutto nudo comincia a correre, mentre dai cespugli comincia a saltare fuori un sacco di gente, tutti quelli che sono stati avvertiti dello scherzo e si mettono a rincorrere il pollo nudo insieme al finto fratello-
-Ma dài… e lui non si accorge di tutta quella gente?-
-Ci vuole un bel po’ prima che se ne accorga. Considera tutta la situazione, l’adrenalina, lo spavento, lo stordimento. Insomma, il pollo corre per un bel po’ prima di rendersi conto di essere caduto in uno scherzo-
-Vedo che lo conosci bene tu!-
-Scherzi? Sono stato uno degli ideatori, una ventina di anni fa. E come ci divertivamo con i figli di papà che d’estate venivano in vacanza da queste parti. Così era divertente ed era la nostra lotta di classe, maresciallo. Fare uno scherzo del genere a uno come Ultimo è una carognata. Per questo, appena saputo ciò che stava succedendo, sono venuto ad avvertirvi e poi anch’io sono andato là, per vedere se potevo fare qualcosa. Ma sono arrivato tardi-
-Già. Anche noi, purtroppo- Il maresciallo si accese una sigaretta e ne offrì una anche a Sibemolle. Il fumo azzurrognolo salì formando piccole nubi e si mise in mezzo ai loro sguardi.
Quando Ultimo aveva sentito quel grido selvaggio provenire dai campi era rimasto impietrito. La bocca si era aperta in un respiro affannoso e il cuore aveva cominciato a battere forte. Solo allora si era reso conto di essere completamente nudo. Sentiva le urla avvicinarsi, mischiate a un piagnucolio che proveniva dal buio, a pochi passi da lui.
-E’ mio fratello! Scappa… scappa!-
Al terzo tentativo Ultimo era riuscito a sollevare i piedi da terra e si era messo a correre. Che strano, aveva pensato, quella ragazza aveva la voce simile a quella della Luisa. Ma non c’era tempo per i pensieri. Doveva correre. Solo correre. Le grida e le minacce si facevano sempre più vicine. E Ultimo si mise a correre come mai aveva fatto nella sua vita. Incurante del dolore che sentiva sotto le piante dei piedi, incurante del buio e perfino della direzione che stava prendendo. Doveva solo correre. Non riusciva nemmeno a capire se capiva perché lo stava facendo, ma doveva farlo: correre. Scappare. Più veloce che poteva. Con gli occhi sbarrati e terrorizzati, il fiato pesante, i muscoli indolenziti, i piedi sanguinanti… Ultimo correva. Non aveva altro da fare.
E fu correndo che giunse in vista di quella grande casa abbandonata. Si fermò di colpo. La paura si mischiava alla paura. Si guardò attorno indeciso sul da farsi e gli parve di scorgere un’ombra.
Sì. Un’ombra era uscita dal niente e gli stava andando incontro. Intravide una figura ghignante, era forse un demone? Poteva sentire il cuore cercare di uscire dai denti. Li strinse forte, cacciò un grido e scattò verso la figura. Gli piombò addosso in una frazione di secondo. Caddero a terra. Ultimo sentiva una voce ma non capiva le parole. Afferrò un sasso e iniziò a colpire.
E colpì.
E colpì di nuovo.
Si rialzò. La velocità dell’affanno superava quella del pensiero. Istintivamente si rimise a correre. E si diresse verso quella casa che gli aveva sempre fatto paura.
-Lo avete arrestato quel pazzo criminale? Guardi qua cosa mi ha combinato, maresciallo… guardi qua!-
Il Ferroni vomitava insulti e veleno, costretto nel suo letto d’ospedale, mentre gli altri pazienti ricoverati nel reparto si sporgevano per guardare chi era che urlava in quel modo. Si appoggiò le dita sulla grossa benda che aveva in fronte, che copriva gli otto punti di sutura che gli erano stati applicati sulla ferita provocata dai colpi inferti da Ultimo.
-Guardi qua, maresciallo… quel pazzo ha tentato di ammazzarmi! Ma quando esco di qua ci penso io a lui!-
Il maresciallo Calindri si appoggiò alla sedia accanto al letto poi si voltò verso il carabiniere a pochi passi da lui e gli rivolse un cenno. Il carabiniere fece uscire tutti i visitatori dalla corsia. Allora Calindri si mise a cavalcioni sulla sedia e protese il volto verso il ragazzo ricoverato.
-Avete combinato un bel casino ieri sera-.
-Combinato cosa?- Replicò il Ferroni. -Uno scherzo innocente e stava per finire in tragedia per colpa di quel matto…-
Il maresciallo lo stoppò con un gesto della mano.
-Altolà!- Ordinò fermo.
-Mi sa che non ci siamo capiti e soprattutto non è chiaro chi sia il matto in tutta questa faccenda…- Calindri estrasse una busta dalla tasca della giacca. -Parliamo di questa, piuttosto-.
Il Ferroni piegò le palpebre, fece per aprire bocca, ma un gran mal di testa gli invase le tempie. Cercò di focalizzarsi sugli occhi del maresciallo e il suo sguardo duro gli tolse la voglia di replicare.
Nella busta c’era la denuncia per aggressione e tentato omicidio che i genitori del Ferroni avevano sporto quella mattina al Comando dei Carabinieri. Il maresciallo non aveva battuto ciglio leggendola, ma subito dopo si era precipitato all’ospedale. Gli sembrava pazzesco che in tutta questa storia la parte del carnefice dovesse toccare all’unica e innocente vittima.
Ultimo aveva agito in preda a un violento shock… ben altri sarebbero stati da denunciare, per il maresciallo. Tutti coloro che avevano partecipato a quello stupido scherzo, ma in modo particolare i due ideatori. E uno ce l’aveva lì davanti, ricoverato in una sala all’ospedale. Calindri gli parlò per una decina di minuti, senza perdere la calma, senza alzare la voce, senza minacce di alcun genere. Con tono freddo, duro, deciso.
-E poi ci sarebbero anche due o tre cosette che so di te e di quell’altro campione, come si fa chiamare? Ah sì… il Trombino. Due o tre cosette che potrebbero farvi passare qualche guaio, sai?-
Il Ferroni lo guardava intimorito.
-Sì, certo che lo sai. Quello che non immaginavi è che le so anch’io queste cosette. E so anche come fare per rendervi la vita difficile!-
Il ghigno strafottente che il Ferroni sfoggiava con estrema naturalezza era scomparso. Sbatteva le ciglia freneticamente, cercando di sostenere lo sguardo del maresciallo.
-Ricapitolando…- continuò Calindri -…ora vuoi dirmi com’è esattamente che ti sei procurato quella ferita alla testa?-
E per la prima volta dall’inizio del suo discorso, sorrise.
Il giovane rimase in silenzio per un po’, osservando la busta con la denuncia posata sul lenzuolo.
-Maresciallo, ma io…-
Ancora una volta il militare lo fermò con un gesto della mano.
-Sei partito male. Dimmi soltanto cosa ti è successo ieri sera-.
Il Ferroni chiuse gli occhi.
-Sono… sono caduto-
-Caduto? E come?-
-Sono… sono scivolato mentre correvo. Sono caduto e ho picchiato la testa su un sasso… va bene così?-
-E’ la verità, no?- E un altro sorriso increspò lievemente la bocca del maresciallo.
-S… sì- deglutì il Ferroni.
-Bene. Viva la verità. Un’altra cosa… direi che questi fogli non servono a niente, no?-
Il Ferroni non rispose. Aprì la busta, ne trasse i fogli della denuncia e li strappò di fronte allo sguardo soddisfatto di Calindri.
Il maresciallo si alzò, salutò il ragazzo e fece per andarsene, ma dopo appena due passi si voltò di nuovo verso il giovane ricoverato.
-Ah… ancora una cosa: che Ultimo venga lasciato tranquillo, va bene? Non vorrei mi fosse riportato che gli è stato fatto qualcosa o che sia stato in qualche modo molestato. Chiaro?-
Il Ferroni annuì e, con un gesto di rabbia, girò la testa sul cuscino.
-Buon riposo- sogghignò Calindri.
Erano passati tre giorni e Ultimo non era ancora uscito dalla sua stanza. Passava il tempo sdraiato sul letto a fissare il soffitto e non proferiva parola, tranne qualche sussurro incomprensibile. Accettava a fatica il cibo che Don Antonio, pazientemente, gli proponeva, così come accettava a fatica le parole di conforto che l’anziano prete cercava di dirgli. Anche Calindri e Sibemolle passarono a trovarlo, ma l’atteggiamento di Ultimo era sempre lo stesso. Muto e immobile, come se non esistesse nessuno.
Pensava e ripensava a quella sera, a quanto era accaduto. Pensava allo sguardo cattivo della Luisa e a quello sputo che gli aveva indirizzato in faccia. E quando rivedeva quella scena gli veniva da piangere senza riuscire a far uscire una sola lacrima. La mattina del quarto giorno si alzò a andò a controllare in canonica: Don Antonio non c’era. Cominciò a guardarsi attorno. Aveva bisogno di una scala.
Quella mattina si sentirono le campane suonare, in paese. Tutti si voltarono verso il campanile, compreso Don Antonio, che era andato a fare visita a un’anziana signora oramai sul punto dell’ultimo saluto. Qualcuno si chiese se Ultimo era impazzito, per mettersi a suonare le campane senza motivo. La curiosità spinse più di una persona ad avvicinarsi alla vecchia torre campanaria.
Il primo a entrare fu Don Antonio, seguito da Sibemolle, che era giunto da poco e gli aveva rivolto uno sguardo interrogativo.
Lo trovarono appeso alla corda della campana, il corpo che sembrava un pendolo con i grossi piedi che oscillavano lentamente. La campana continuava a suonare al mesto ritmo di una vergogna così grande da trasformarsi in morte.
Per terra, sotto il corpo senza vita di Ultimo, un sacco pieno di monete… quei soldini che aveva messo da parte per il regalo alla Luisa e che ora non le avrebbe più fatto.
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Marco di Grazia
Nasce a Pescia (PT) nel 1969, esordisce nel fumetto nel 1997 come sceneggiatore della serie umoristica “Non calpestare le margherite” e della serie “Area 51” per i disegni di Marcello Mangiantini, con cui pubblica anche racconti brevi sulle riviste “Selen”, “Il giornale dei misteri”, “Gli amici del 2000”. Nel 2003 si occupa dei testi, sempre per i disegni di Mangiantini, della miniserie western “Il Diavolo Bianco”, anno in cui vince, inoltre, il concorso Giallowave e pubblica il racconto “Un facile caso”. Nel 2008 esce il primo romanzo, “Li chiamavano Bartali e Coppi”, seguito nel 2010 da “L’Ottavina di Dio” scritto a quattro mani con Francesco Villari, con cui pubblica, nel 2016 un altro romanzo: “Democracia Futebol Clube”. Nel 2016 è finalista del Lucca Project Contest con la graphic novel “Cinque minuti due volte al giorno; nel 2017 scrive la piece “Vixerunt”, una storia narrata, disegnata e recitata, e il racconto\fiaba “L’uomo che custodiva la musica” con le illustrazioni di Cristiano Soldatich. Fa parte dello “Studio Sciupòn” insieme ai disegnatori Giovanni Ballati, Riccardo Innocenti e Cristiano Soldatich e allo sceneggiatore Iacopo Innocenti; e del collettivo di artisti “Abrazo Futbolero”, attivo in tutta Italia con mostre, manifestazioni, presentazioni e diverse altre attività.